Da poco meno di cento anni, dal 1930, c’è una rivista economica americana a larga diffusione, Fortune, che dà conto del potere raggiunto dal capitalismo negli Stati Uniti. Il messaggio principale, per il pubblico dei lettori non direttamente coinvolti, è giunto nel 1955 e consiste in un elenco dei dati vitali delle 500 maggiori società Usa.
Una volta l’anno, al finire della primavera, Fortune mette a disposizione del pubblico, di esperti e di curiosi che vogliono sapere di più, i dati vitali delle imprese che tutti o quasi tutti, conoscono di nome, perché possano investire in azioni con tutta la fortuna possibile, appunto, oppure anche solo per consentire loro di saperne di più.
Alla fine del secolo scorso, però, la rassegna nazionale è sembrata insufficiente e se ne è aggiunta un’altra, dedicata ai dati delle maggiori imprese e società del globo, con l’intento neppure troppo nascosto di mostrare la superiorità nazionale in imprese efficienti, profitti irraggiungibili, libertà di analisi giornalistica.
Come è ovvio, descrivere il capitalismo e le sue dinamiche in qualche pagina di cifre, sia pure accuratissime, è impossibile. Si può tentare però di utilizzare Fortune per riflettere sui cambiamenti in atto: tra imprese, tra Paesi, tra attività e branche del profitto.
Dando per scontato (ciò che è una semplificazione) che Fortune è sempre la stessa rivista, liberal liberista e pur con i cambiamenti editoriali – stampa, distribuzione, proprietà e così via – e che la sua filosofia politica – “First my Country” – ha superato, senza troppi traumi, qualche crisi, qualche recessione, qualche guerra.
Le 500 società globali sono cresciute in un modo straordinario, confermando la vocazione a inghiottire tutto, trasformando ogni attività umana, ogni lavoro, ogni forma d’intrattenimento, ogni bisogno in profitto, come si cercherà di documentare più sotto.
Servendoci dunque della rivista come di un righello, il più semplice tra gli strumenti di misura, mettiamo a confronto i fascicoli di tre anni diversi – 1999, 2008, 2019 – tenendo conto che i dati si riferiscono a ciascuno degli anni precedenti. Oltre che l’ultimo anno possibile, abbiamo preso in considerazione anni capitalisticamente “tranquilli”: prima dell’11 settembre e prima del disastro finanziario del 2008.
Quanto è cambiato, com’è cambiato in vent’anni il capitalismo globale misurato con il nostro righello? Per assecondare la curiosità, per fare in fretta, abbiamo messo a confronto le presenze, di decennio in decennio, delle imprese dei Paesi maggiori: Usa, Cina, Giappone e Europa. Per Europa si intende l’Unione Europea, come un tutt’uno già nel 1999, con l’euro alle prime armi, e compresa la Gran Bretagna, come se facesse davvero parte dell’Unione. Il risultato è il punto di partenza per molteplici discussioni.
Nel fascicolo gli Usa hanno 185 società, sulle 500 totali maggiori del mondo, l’Europa unita 156, la Cina 6 e il Giappone 100.
Le cento imprese del Giappone facevano allora molta impressione agli americani che si sentivano soffocare.
Libri e film dell’epoca sono ancora lì a provare la preoccupazione, il senso di aggressione comune tra le imprese e le accademie americane e condiviso dal loro governo e dall’opinione pubblica. Dieci anni dopo, nel 2008, prima del crollo bancario, intitolato Lehman Brothers, il Giappone è molto ridimensionato, lasciando sul campo un terzo delle sue prime imprese, tra le 500 globali.
I cinesi sono ancora lontani, pur avendo moltiplicato per cinque le loro presenze. Gli europei superano gli Usa, ma non sono temuti come insieme. Sono, volta a volta, inglesi, tedeschi, francesi. C’è perfino una pattuglia d’italiani, ma l’unico di essi che gli americani cominciano a prendere in considerazione è l’uomo della Fiat, Sergio Marchionne. In sostanza, in quell’anno 1999 gli Usa sono 153, gli europei 167, i cinesi 29 e i giapponesi 64.
Se arriviamo ai giorni nostri, nel fascicolo dell’agosto 2019, il numero delle imprese americane – 121 – è pressoché raggiunto dalle imprese cinesi, 119 e perfino dalle europee – 114 – mentre le imprese giapponesi sono solo 52.
Val la pena di notare che svariate grandi imprese censite tra le maggiori 500 del globo fanno capo a Paesi diversi da Usa, Cina, Unione Europea, Giappone: sono 94.
Questo significa che molti altri Paesi hanno ormai grandi multinazionali d’importanza globale: Sud Corea ne ha 16, Svizzera 14, Canada 13, Taiwan 10, Brasile 8, Australia 7, India 7. Messico 4, Russia 4, Singapore 3, solo per indicare i principali.
Salta subito agli occhi il dato principale: la crescita del numero delle imprese cinesi. Taluni economisti e politologi americani si aspettano il sorpasso già nel 2020. Non che ciò conti in sé, ma come verrà utilizzata la temuta novità, il giorno 3 novembre 2020, al momento di votare il nuovo presidente?
Da notare inoltre che 38 società cinesi dell’elenco Fortune sono di proprietà privata, mentre le altre 81 sono a prevalente capitale governativo. Gli americani aborriscono le imprese dei governi.
Parlando d’altro, ad esempio è privata la società Suning, arrivata al 333° posto dal 427° del 2017, nota per essere proprietaria della gloriosa Inter, società calcistica di Milano.
Nel caso Suning è significativo tanto l’interesse dedicato ad attività non strutturali ma di “tempo libero”, quanto la crescita di quasi 100 posti in un anno, tra due classifiche Fortune.
Una crescita pari a quella della ben più importante società Tencent Holdings che svolge il ruolo di Google cinese. Ancora migliore è il risultato della forse più nota società cinese, Alibaba, che cresce tra 2017 e 2018 di 118 posti, risalendo da 300° a 182°.
Divisione tra Paesi delle 500 società globali nei 3 anni
Paesi/Anni |
1999 |
2008 |
2019 |
Usa |
185 |
153 |
121 |
Cina |
6 |
29 |
119 |
Giappone |
100 |
64 |
52 |
Unione Europea |
156 |
167 |
114 |
Altri |
53 |
87 |
94 |
Prima di rileggere l’insieme delle 500 società globali nei tre anni considerati e la modifica, attraverso il loro vario aspetto, del capitalismo globale conosciuto, vorremmo aprire un breve intermezzo sull’andamento delle società italiane.
Nel primo anno considerato – 1999 – erano 11 società, divenute 10 dieci anni dopo e infine 6 nell’ultimo anno, il 2019. I ricavi complessivi passano da 262 miliardi di dollari a 603, a metà percorso, per scendere a 372 a fine periodo. Delle 11 società iniziali ne rimangono in vita 4: Assicurazioni Generali, Enel, Eni, Unicredit. A fianco di Unicredit compaiono all’inizio altre tre banche, Commerciale, Intesa, S.Paolo-Imi, che sono già il frutto di una drastica semplificazione. Le tre diventano prima due, Intesa-Commerciale e S.Paolo-Imi finché, a fine corsa, Fortune indicherà il vincitore come Intesa S. Paolo.
Ci sono poi i casi di Fiat, Iri, Montedison, l’industria italiana tradizionale: auto, chimica, intervento pubblico. L’Iri è in fase di smantellamento, anche in seguito al referendum del 1993 (“Volete voi abolire la legge istitutiva del ministero delle Partecipazioni statali?”). Un numero travolgente di Sì, oltre il 90% è il vento in poppa alla politica demolitoria di Romano Prodi presidente del Consiglio dal 1996, dopo aver fatto per una decina di anni – in due turni – il presidente dell’Iri. Prodi, sistemata la siderurgia d’accordo con Van Miert, passa alle banche, all’industria alimentare, a tutto il resto. Anche i mugugni della sinistra, presente nella coalizione del governo Prodi tra 1996 e 1998, sono di poca cosa. Mentre Iri e Montedison sono fatte a pezzi, diverso è il caso della Fiat, che ha ricevuto in dote l’americana Chrysler. Per una decina d’anni – intermezzo nell’intermezzo – Chrysler è stata in mano alla Daimler tedesca (Mercedes), ma l’affiatamento è scarso. Quando si presenta l’occasione e c’è un gruppo finanziario, Cerberus Capital Management, Daimler vende l’80% delle azioni Chrysler. Qualcuno s’insospettisce perché l’anno prima Cerberus si è impadronito di quel che conta – la finanza – di General Motors. La crisi economica del 2008 rimette tutto a posto. Non c’è trippa per gatti, non c’è finanza per nessuno. Cerberus lascia l’auto, utilizzando i vantaggi fiscali e giuridici che la legge americana assegna a chi fallisce e poi tutto finisce in mano a Barack Obama. L’accorto Obama riassume tutto, cercando un altro compratore. Lo trova, si chiama Sergio Marchionne, capo della Fiat. Qualche anno dopo – un altro intermezzo? – il solito Cerberus ha cercato di comprare Alitalia, un’antica proprietà di Iri. Non è riuscito, ma perché ci avrà provato? Per aiutare l’Italia in difficoltà? O per seguire la sua natura di “fondo avvoltoio” com’è chiamato? Per tornare alla Fiat, o FCA come si chiama ora, come mai non è più onore e vanto nell’elenco delle società pertinenti all’Italia, ma fa invece capo a una società olandese di nome Exor? Il fatto probabile è che i suoi padroni, la dinastia Agnelli, abbiano scelto di limitare l’esborso per le tasse, convinti che l’Olanda sia la soluzione.
Per tornare al discorso principale, le entrate complessive delle 500 maggiori società globali, crescono dagli 11.463 miliardi di dollari del 1999 ai 23.618 miliardi di dollari del 2008, ai 32.684 miliardi di dollari del 2019. I guadagni o profitti che dir si voglia crescono ancora più rapidamente: da 440 miliardi del 1999, a 1.593 miliardi del 2008, fino a 2.154 del 2019.
Il valore delle attività che era calcolato in 38.989 miliardi di dollari nel 1999, è salito a 105.039 miliardi nel 2008 e a 134.183 miliardi nel 2019. Gli addetti passano da 40 milioni nel 1999, a 54 nel 2008 e a 89 nel 2019. Sarebbe un errore immaginare che tutto sia dovuto alla crescita della classe operaia, che lotta ed è capace di sorreggere sulle sue spalle il mondo della produzione e dei commerci. Come non ricordare che i lavoratori nel mondo, quelli censiti dall’Ilo (International Labour Organization) sono 3,5 miliardi, con 3,3 miliardi effettivamente al lavoro? Dunque non sono poi molti gli addetti compresi nelle poche decine di milioni delle maggiori multinazionali. I padroni del mondo sono poca cosa, una patina superficiale.
Come cambia il sistema delle 500 multinazionali globali censite da Fortune
Anni/Dati |
Vendite * |
Profitti * |
Risorse * |
Addetti ** |
1999 |
11.463.407 |
440.272 |
38.989.284 |
39.685.624 |
2002 |
14.009.960 |
306.092 |
48.653.506 |
47.810635 |
2008 |
23.618.475 |
1.592.920 |
105.039.371 |
54.163.484 |
2019 |
32.683.811 |
3.153.759 |
134.182.858 |
89.264.834 |
Torniamo a noi. Le dieci imprese multinazionali con più addetti sono: Walmart, grandi magazzini Usa e in generale commercio internazionale, con 2,2 milioni di addetti; seguono tre imprese governative cinesi China National Petroleum, China Post Group e State Grid che distribuiscono petrolio, posta ed elettricità, con 1,4 milioni di addetti la prima e 0,9 milioni, le altre due. Poi c’è Hon Hai di Taiwan che fabbrica tutti i cellulari del mondo (o quasi) con il nome più noto di FoxConn e 668 mila addetti; poi la ben nota Volkswagen, tedesca, con 664 mila addetti; poi Amazon, altrettanto e più nota, con 648 mila addetti; poi la petrolchimica cinese Sinopec Group con 619 mila addetti; poi la grande impresa inglese di distribuzione alimentare Compass Group con 596 mila addetti e per finire, al decimo posto, le poste americane, US Postal Service, con 565 mila addetti.
Come si noterà nella tabella c’è il crollo dei profitti nell’anno 2002, che abbiamo aggiunto per complicare le cose. Un anno prima i profitti erano più che doppi (667 miliardi di dollari: c’è stato poi il crollo nell’auto, nel petrolio, nelle aviolinee).
Al sesto posto nella classifica Fortune 2002 c’è però Enron, una società americana di distribuzione elettrica, cresciuta rapidamente nelle classifiche negli anni precedenti e risalita in fretta tra le solite maggiori società del capitale maggiore. Il sesto posto di allora, la colloca subito prima di DaimlerChrysler che non ha ancora risolto i suoi problemi. Il magnifico risultato di Enron è calcolato, come informa Fortune, su tre trimestri soltanto, perché, prima che l’anno si chiuda, Enron fallirà. Fortune inserisce una piccola spiegazione su questo crollo di cui si è molto scritto e discusso, anche in Italia. “Enron è fallita e disonorata, ma ciò non la esclude dalla lista delle maggiori società mondiali: il Global 500 misura i ricavi, non la virtù”. E questo è quanto.
Nessun commento:
Posta un commento