giovedì 31 ottobre 2019

Libro. Il mercato è obsoleto.

karl-polanyi-l-obsoleta-mentalita-di-mercato-asterios-499È appena uscito, a cura di Michele Cangiani, che ne ha scritto anche l'introduzione, Karl Polanyi, "L’obsoleta mentalità di mercato, Scritti 1922-1957" (Asterios), che fra i 24 saggi, articoli e manoscritti del grande studioso ungherese inclusi nel volume presenta due inediti in italiano, “Marx sul corporativismo” e “Il collasso del sistema internazionale”. Ringraziamo l'editore e il curatore per averci concesso di pubblicare questo estratto.



micromega KARL POLANYI
Marx sul corporativismo[1]
… il costituzionalismo prussiano, cioè l’assolutismo appena camuffato dalla presenza dei cosiddetti stati [Estates, Stände]; Marx auspicava un governo rappresentativo, il voto popolare e l’abolizione dell’antiquata istituzione degli stati. La parte principale delle sue Note[2] è un attacco al tentativo di Hegel di sancire i metodi dell’ancien régime prussiano quale apogeo della libertà umana.
A questo punto vengono prese in considerazione le gilde o corporazioni. Le Korporationen (com’erano chiamate nella Germania del XVIII secolo) formavano una parte importante della costituzione, poiché erano rappresentate negli stati [Estates]. Nel suo attacco contro gli stati, Marx mette in questione l’insistenza di Hegel sull’organizzazione in gilde dell’attività economica e la presunta necessità di assegnare alle gilde una funzione nello Stato.
Possiamo dunque vedere chiaramente perché il ruolo delle gilde fosse un’importante preoccupazione di Marx e perché egli tenesse a opporsi ad esse in quanto sostegno dell’ancien régime; perché, inoltre, nella lotta contro il corporativismo fosse in gioco la causa della democrazia politica.

Lo Stato corporativo del fascismo contemporaneo è effettivamente un tentativo di adottare caratteristiche essenziali del sistema tradizionale delle gilde in circostanze differenti. Vedremo più oltre quanto diverse siano le condizioni, sia dal punto di vista tecnologico che da quello sociale. Una decisiva analogia con il passato è costituita, comunque, dalla funzione antidemocratica, ora come allora, del sistema delle gilde. Marx indaga questo aspetto con una straordinaria capacità di penetrazione, rivelando, fra l’altro, l’alternativa fondamentale che sta alla base dello sviluppo sociale attuale.
Mi riferisco qui all’insistenza di Marx sulla tendenza dell’economia di mercato a distruggere l’unità della società mediante l’istituzione in essa di una sfera economica distinta. Un tale sviluppo conduce inevitabilmente, infatti, a una separazione istituzionale fra la sfera politica e quella economica, che può essere solo transitoria e quindi costringe a interrogarsi su quale base l’unità della società debba essere ricomposta. Infine, è stato su tale questione che socialismo e fascismo hanno offerto soluzioni opposte, reciprocamente incompatibili. Marx aveva dunque centrato un problema cruciale, benché non potesse, com’è ovvio, valutarne pienamente l’importanza per il futuro.
Queste osservazioni iniziali inducono a chiederci perché tale questione sia stata finora trascurata. Davvero il corporativismo prussiano del 1842 e quello italiano o austriaco degli anni Trenta del nostro secolo hanno così tanto in comune quanto noi sembriamo presumere? E fino a qual punto si può seriamente pretendere che il pensiero di Marx regga un riferimento puntuale agli svariati problemi posti ai nostri giorni dalle tendenze corporative?
Il manoscritto
Questo voluminoso manoscritto è stato reso disponibile al pubblico dell’Europa occidentale solo in tempi relativamente recenti. Fino alla fine della Grande Guerra era custodito dal Partito socialdemocratico tedesco. Esso fu dapprima pubblicato nel 1927 con il titolo Critica della filosofia hegeliana dello Stato dall’Istituto Marx-Engels di Mosca, sotto la guida di David Riazanov. Solo nel 1932 il testo fu ristampato in Germania, ad opera di Landshut e Meyer, in un’edizione in due volumi delle opere giovanili di Marx[3]. Quest’edizione comprendeva anche i Manoscritti economico-filosofici, fino ad allora completamente sconosciuti, che attrassero giustamente grande interesse.
Tornando alla Critica della filosofia hegeliana dello Stato, gli stessi Landshut e Meyer non mancarono di sottolinearne la rilevanza, situandola, tuttavia, nel campo della filosofia e della logica. Essi hanno messo in evidenza la brillante critica dell’uso mistificatorio della dialettica da parte di Hegel, che indubbiamente segnò un punto di svolta nella formazione del giovane Marx. Il naturalismo di Feuerbach gli veniva ora in aiuto, nel suo sforzo di emanciparsi dalla fascinazione della dialettica idealistica. Macmurray ha commentato il passaggio sulla “democrazia della non-libertà”[4] nel 1935; in seguito Adams ne ha sottilmente analizzato il ruolo nello sviluppo della logica di Marx. Il contenuto politico della Critica della filosofia hegeliana dello Stato è stato appena sfiorato.
Gilda o Korporation
Korporation, come abbiamo visto, era il termine comunemente usato per ‘gilda’ nella Prussia del XVIII secolo. Altri termini correnti erano Innung, Zünft o Genossenschaft. Hegel, che preferiva definire i termini secondo i propri fini, usò il termine generico Korporation come sinonimo di ‘gilda’. Egli si sofferma in numerosi passaggi sul ruolo e la funzione della Korporation quale organizzazione monopolistica di coloro che esercitano un mestiere artigiano. Nella sua monumentale opera, Das deutsches Genossenschaftsrecht, [Otto von] Gierke ha studiato dettagliatamente ogni ramo dell’organizzazione tedesca delle gilde, seguendo passo dopo passo lo sviluppo che ha portato in Germania all’adozione nel XVIII secolo del termine Korporation per denotare tutte le forme di gilde artigianali.
Il termine moderno ‘corporativismo’ [corporativism] deriva a sua volta dal termine italiano – ‘corporazione’ – per ‘gilda’. L’idea di far rivivere il sistema delle gilde nelle condizioni dell’industria moderna fu affacciata sia dai socialisti che dai fascisti dopo la Grande guerra. Nel guild socialism, quale viene presentato da G. D. H. Cole nel 1920[5], i produttori divengono proprietari dell’industria, e l’organizzazione in forma di gilda è destinata a garantire sia la democrazia funzionale[6] sia la cooperazione armonica con la municipalità e lo Stato. Nel fascismo italiano la gilda è stata configurata per servire allo scopo opposto. La proprietà rimane ai capitalisti, cioè ai non-produttori, mentre le unioni o sindacati dei lavoratori non sono altro che una sezione della gilda o corporazione. Fondata su questa base, la società non è altro che la completa negazione della democrazia, sia industriale che politica. Tale sistema fu dapprima suggerito da Rossoni (o Bottai)[7] nel 1919, e adottato da Mussolini nel 1920. A Vienna, l’anno seguente, Othmar Spann ha elaborato nel suo Wahre Staat del 1921 una complessa filosofia sociale, che delinea lo stesso piano generale, con qualche differenza. Condivide in parte la stessa ispirazione l’Enciclica papale Quadragesimo Anno del 1931, che intende generalizzare l’idea dello Stato corporativo. Essa sembra fare concessioni all’idea democratica, ma essenzialmente mantiene il dominio della sola classe capitalistica sullo Stato e sull’economia.
(Si può aggiungere che nel mondo anglosassone il termine corporation ha assunto significati diversi da ‘gilda’. Esso può denotare in generale la concezione medioevale della comunità organica o quella moderna di un organismo pubblico costituito [incorporated] mediante una concessione o uno statuto; negli Stati Uniti il suo significato più frequente è semplicemente quello di società a responsabilità limitata).
Chiaramente, le corporazioni nella Prussia all’inizio del XIX secolo, quando Hegel scriveva, erano molto diverse dalle corporazioni del XX secolo. Quando i programmi dei fascisti italiani (1922), dei nazisti tedeschi (1923) e dei fascisti austriaci della Heimwehr di Starhemberg (1929) e di Dollfuss (1932), e anche l’Enciclica papale (1931) proclamarono l’idea corporativa, il capitalismo liberale aveva terminato il suo corso. Al tempo di Hegel non l’aveva ancora iniziato. Mentre nell’epoca di Hegel e del giovane Marx l’economia di mercato era di là da venire e la sopravvivenza medioevale delle gilde inibiva il suo pieno sviluppo, nell’epoca di Mussolini e Hitler l’economia di mercato aveva esaurito la sua forza; il principio corporativo veniva dunque invocato in circostanze completamente diverse.
La situazione era infatti mutata da quasi tutti i punti di vista. La gilda era un residuo dell’età precedente a quella delle macchine, cioè del tempo in cui arti e mestieri si avvalevano di strumenti relativamente semplici. Il corporativismo nuovo è stato concepito per essere applicato a impianti altamente meccanizzati e a imprese giganti. Le gilde si formarono in un ambiente di artigiani e maestri indipendenti, nel quale l’operaio apparteneva alla stessa classe del suo capo o almeno non ne era troppo lontano. La corporazione fascista, al contrario, è fondata su una rigida distinzione di classe fra proprietari e non proprietari, fra capitalisti e proletari, separati da barriere di casta. I due tipi di corporazione sono dunque fortemente dissimili riguardo sia alla loro base tecnologica sia alla loro funzione sociale; collegarli per il mero motivo del nome è evidentemente artificioso.
La loro funzione antidemocratica
Fra le corporazioni sostenute da Hegel e quelle abbracciate da quasi tutti i movimenti politici del nostro tempo c’è in realtà un’impressionante somiglianza riguardo al loro ruolo politico. Allora come adesso, l’organizzazione corporativa di attività economiche basate sulla proprietà privata è un nemico potente del governo popolare; è un ostacolo alla sua instaurazione e un mezzo per abolirlo nel caso che esso venga insediato.
In altre parole: mentre con il socialismo l’unità della società è reintegrata mediante l’estensione della democrazia politica alla sfera economica, il fascismo si batte per lo scopo diametralmente opposto di unificare la società rendendo padrone dello Stato un sistema economico non democratico.
In conclusione, mi sia consentito di dire che quella che Marx qui[8] chiama la separazione, nella società, della sfera politica da quella economica è stata riconosciuta nel nostro tempo come incompatibilità fra capitalismo liberale e democrazia popolare. L’unità della società può essere ricostituita eliminando il primo oppure la seconda. L’autore del presente articolo, anche prima di leggere i commenti di Marx sulla teoria hegeliana dello Stato, aveva così sintetizzato (nel 1934) la propria posizione[9]:
Fondamentalmente, ci sono due soluzioni: l’estensione del principio democratico dalla politica all’economia, o la completa abolizione della ‘sfera politica’ democratica.
L’estensione del principio democratico all’economia implica l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, e quindi la scomparsa di una sfera economica autonoma: la sfera politica democratica diventa l’intera società. Questo in sostanza è il socialismo.
Inversamente:
Dopo l’abolizione della sfera economica democratica resta soltanto la vitta economica: il capitalismo così com’è organizzato nei diversi rami della produzione diventa l’intera società. Questa è la soluzione fascista.
Questa risulta evidentemente poco più di una parafrasi della critica del corporativismo scritta da Marx nel 1841-42.
Il collasso del sistema internazionale[10]
Mercato nazionale e mercato internazionale
Il fallimento del sistema economico internazionale era in definitiva dovuto alle stesse debolezze intrinseche che caratterizzavano i sistemi nazionali nell’ambito di un’economia di mercato. L’idea che l’autarchia sia responsabile della rottura non è sostenibile. Al contrario, si potrebbe argomentare più giustamente che è stato il fallimento del sistema internazionale a dar origine all’autarchia.
Il termine mercato mondiale sembra suggerire l’esistenza di un mercato esterno in aggiunta ai mercati nazionali. Un tale mercato internazionale separato, tuttavia, non esiste. Rispetto a ciascun mercato nazionale, gli altri mercati nazionali formano nel loro insieme il mercato internazionale, ogni parte del quale è soggetta, quindi, a una data giurisdizione e svolge le proprie transazioni in una valuta.
Pertanto, al fine di collegare i vari mercati nazionali all’unico mercato internazionale, oltre all’assenza di ostacoli giuridici al commercio, è essenziale che le diverse valute nazionali siano scambiabili a un tasso stabile. Se tali valori esterni stabili non vengono assicurati, i mercati internazionali risultano impossibili, sia per i capitali che per le merci.
Che cosa intendiamo esattamente con valori esterni stabili e come possiamo provvedervi? Per valore esterno della moneta s’intende la quantità di valute estere che si possono ottenere in cambio della propria. Per valore interno s’intende il potere d’acquisto di una data moneta nel paese in cui viene emessa; esso dipende dal livello dei prezzi. Se il tasso di cambio dev’essere mantenuto stabile, dev’esserci parità di potere d’acquisto tra le valute; in altre parole, il livello dei prezzi interno non dovrebbe aumentare relativamente al livello dei prezzi in altri paesi. Ne consegue che, al fine di proteggere il valore esterno della moneta, dobbiamo consentire che il suo valore interno, ossia il livello dei prezzi, oscilli.
Questo requisito semplice ma rigoroso ha implicazioni di vasta portata. In un’economia di mercato tutto dipende dai prezzi. Se l’eccedenza dei prezzi di vendita sui costi scompare, la produzione dev’essere ridotta. Si crea disoccupazione, i salari e gli utili diminuiscono, il sistema s’inceppa. Ciò accade inevitabilmente quando il livello dei prezzi viene abbassato artificialmente per mantenere stabili gli scambi. Ora, in linea di principio, il sistema dovrebbe automaticamente correggersi, poiché se i prezzi di vendita diminuiscono, i costi dovrebbero seguire dopo un po’, ripristinando così l’eccedenza dei prezzi di vendita rispetto ai costi. Tuttavia, come abbiamo visto, un sistema di mercato autoregolato è un’utopia. Nessuna società potrebbe sopportare i suoi effetti devastanti qualora esso funzionasse davvero. Fin dagli inizi del laissez faire lo Stato e organizzazioni volontarie sono intervenuti per proteggere dal meccanismo del mercato la società, con la legislazione sulle fabbriche; hanno agito in questo senso anche il sindacato e la Chiesa. In conseguenza di queste misure protettive il sistema dei prezzi perse la sua elasticità, i costi cessarono di essere flessibili, i salari tendevano a diventare rigidi. È quindi facile vedere che proprio le misure originariamente progettate per proteggere la società al suo interno dagli effetti di un’economia di mercato hanno infine aumentato le difficoltà di funzionamento dell’economia di mercato a livello internazionale. Le leggi sul lavoro e il sindacalismo richiedevano una protezione esterna, cioè tariffe doganali. Uno dei fattori che tendeva a disgregare il sistema internazionale proveniva quindi dall’interno dei sistemi nazionali stessi.
I confini nazionali come ammortizzatori
Ma la storia non finisce qui. L’esigenza di protezione esterna dei mercati nazionali scaturiva dalla natura della divisione internazionale del lavoro in un sistema di mercato. La forza del fattore esterno era uguale a quella del fattore interno; nel loro rapporto, l’assioma del libero scambio risultava confutato.
La divisione internazionale del lavoro è un vantaggio assoluto. Ma fino a qual punto può essere conseguito mediante l’economia di mercato? Questo è il problema.
Se la divisione internazionale del lavoro è realizzata mediante la concorrenza e la conseguente eliminazione del meno efficiente, molto dipende dalla velocità con cui avviene il cambiamento e dalle dimensioni delle unità coinvolte. Fintanto che le unità concorrenti sono piccole, come ad esempio le varie fattorie di un’area ristretta o le rivendite alimentari di un sobborgo, il disagio causato dall’eliminazione del disadatto sarà lieve in confronto ai vantaggi che servizi migliori arrecheranno alla comunità nel suo complesso; anche le persone eliminate potrebbero rifarsi grazie alle opportunità offerte dal miglioramento del sistema. Le cose, però, vanno diversamente nel caso di unità sempre più grandi; se a competere sono intere regioni, nazioni o continenti, l’eliminazione dei meno efficienti può comportare la rovina di intere comunità. Quindi il sistema, lungi dall’essere una benedizione, diventa un pericolo mortale e dev’essere controllato ad ogni costo. Potrebbe anche accadere che, insieme alla crescita delle unità, si acceleri il processo della divisione del lavoro, non lasciando alle unità svantaggiate il tempo per riadattarsi. Mentre un aumento lento della divisione del lavoro realizzato dal meccanismo del mercato sarebbe puramente benefico, un elevato tasso di cambiamento potrebbe funzionare come un meccanismo puramente distruttivo.
Ciò aiuta anche a capire il repentino elevarsi degli Stati nazione a primaria importanza nel corso del XIX secolo. Lo stupefacente aumento del benessere generale scaturito dall’estendersi della divisione del lavoro nel mondo poté essere assicurato solo dalla diffusione del sistema di mercato. Ma i grandi pericoli inerenti in tale sistema, sia all’interno che internazionalmente, costrinse lo Stato a prendere misure di protezione, che lo costituirono come unità vitale dell’esistenza sociale a un grado senza precedenti. Quanto più si faceva intensa la competizione internazionale e stringente l’interdipendenza delle varie parti del mondo, tanto più essenziale divenne la sola unità organizzativa efficace al livello raggiunto attualmente dalla tecnica: la nazione. Il nazionalismo moderno è una reazione protettiva contro i pericoli inerenti a un mondo interdipendente.
Profilo storico
Un accenno alla storia sociale del XIX secolo confermerà quest’analisi.
Portiamoci in Inghilterra, patria e centro del movimento. Cominciamo dal liberalismo economico o laissez faire per procedere con la costruzione dei mercati mondiali cioè del libero mercato. Il primo riguarda l’economia nazionale, il secondo quella internazionale.
a) Il laissez faire
Per circa 250 anni l’Inghilterra era vissuta entro un sistema che era una forma di mercantilismo. L’impiego di ogni fattore della produzione era regolato da uno statuto. Il lavoro era regolato dallo Statute of Artificiers (1563) e anche dalle Poor Laws emanate quello stesso anno e in seguito. Sia il prezzo del lavoro che la sua offerta erano determinati dalle autorità pubbliche. La common law stabiliva le forme dell’uso della terra. Nelle campagne, dal 1662 il lavoro era vincolato alla circoscrizione parrocchiale; inoltre, era proibita l’importazione di grano, salvo in caso di carestia. Le leggi sulla navigazione regolavano la spedizione e il trasporto. L’esportazione di lana era vietata. I prezzi dipendevano dalle Assise per il pane e la birra e dalle regole delle corporazioni; i salari erano fissati dal magistrato; il tasso d’interesse era limitato per legge; il commercio era controllato in modo da prevenire lo sviluppo di mercati non regolati.
La Rivoluzione industriale era già ben avviata quando queste regolazioni furono revocate al fine di istituire un’economia di mercato. Ancora nel 1795 il ‘diritto alla vita’ medioevale fu effettivamente riconosciuto con il ‘sistema dei sussidi’, che assicurava un reddito al lavoratore, sia che avesse un lavoro oppure no. Il laissez faire fu recepito e il lavoro divenne merce, ma non prima del 1834, quando quel sistema decadde con la riforma della Poor Law.
D’altra parte, il contro-movimento protettivo fu messo in atto dalla società poco dopo il laissez faire. Nel 1847 furono promulgate le norme sulla giornata lavorativa di dieci ore e cinque anni dopo il movimento delle Trade Union era ben avviato. Nel 1844 nacquero le cooperative di consumo. E nei primi anni Cinquanta i Socialisti Cristiani manifestavano le loro proteste contro il liberismo economico. La predominanza del laissez faire sul piano legislativo sarebbe durata poco più di una generazione.
I lavoratori, benché si fossero battuti contro il liberalismo economico sotto la guida dell’Owenismo[11] e del Cartismo, abbandonarono la lotta negli anni Cinquanta e si rivolsero anch’essi, con convinzione, al liberalismo. Non i loro interessi, in realtà, bensì quelli delle classi proprietarie finirono per essere rispecchiati da un protezionismo che era, sì, sociale, ma anche conservatore. Erano gli anni in cui Joseph Chamberlain[12], industriale radicale di Birmingham, lanciava la sua campagna per la legislazione sociale e il suffragio universale, dandosi poi ben presto al protezionismo e all’imperialismo.
Tale conversione dal protezionismo interno a quello esterno, ben rappresentata dalla carriera di Joe Chamberlain, fu imposta al mondo intero dalle conseguenze del libero scambio.
b) Il libero scambio
Il libero scambio iniziò con grandi successi, specialmente per l’Inghilterra, quale centro industriale del mondo, con il suo monopolio dei processi produttivi basati su ferro e carbone.
Ma questo periodo felice durò solo dal 1846, quando furono abrogate le Leggi sul grano, alla depressione del 1873-1885, alla fine della quale il mondo non era più liberoscambista. Ancora una volta il contro-movimento era dovuto all’efficacia stessa del principio in questione.
In effetti, la divisione mondiale del lavoro mostrò i suoi inconvenienti non appena la nave a vapore fece la sua comparsa sugli oceani. Un fiume di granaglie d’oltreoceano a buon mercato inondò i mercati d’Europa, minacciando di distruggere il sostentamento di milioni di agricoltori, specialmente dei più conservatori. Il sistema sociale stesso era in pericolo, perché il contadino continentale non è un agricoltore, cioè un piccolo imprenditore impegnato in agricoltura, ma un membro di un gruppo sociale tradizionale che deve vivere sulla terra o perire.
L’istituzione di tariffe agrarie fu l’inizio del protezionismo in Europa. Le tariffe industriali seguirono, per compensare gli industriali della perdita di competitività che altrimenti l’aumento dei prezzi dei generi alimentari avrebbe provocato, dato che i salari reali dei lavoratori dovevano essere salvaguardati. Per gli imprenditori, gli oneri derivanti dalla legislazione sulle fabbriche e dai sussidi sociali erano in tal modo bilanciati dai vantaggi derivanti dalle tariffe, dai premi e da altri tipi di aiuti. Ben presto i due tipi di protezionismo, interno ed esterno, si fusero in un tessuto compatto che distrusse del tutto la flessibilità del sistema economico.
Ciò avvenne più o meno nell’ultimo quarto del XIX secolo. Da allora in poi la preoccupazione principale dello Stato fu di alleviare la tensione sotto cui il sistema economico funzionava, in parte rafforzando la capacità dei confini nazionali di assorbire gli urti, in parte aggiungendo la pressione politica sui mercati internazionali a quella economica. Il primo tipo di interventi ha instaurato il protezionismo, il secondo ha a dato il via all’imperialismo quale forza nuova e fatale negli affari internazionali.

NOTE
[1] [“Marx on Corporativism”. Secondo di due dattiloscritti con lo stesso titolo, senza data, ma della metà degli anni Trenta. Karl Polanyi Archive, 19-11. Manca la prima pagina.]
[2] [Si tratta della Kritik des Hegelschen Staatsrechts, come specificato da Polanyi poco oltre.]
[3] [Polanyi condusse, nella seconda metà degli anni Trenta, in Inghilterra, una lettura collettiva di questa pubblicazione con un gruppo della Christian Left. Come Polanyi, faceva parte del gruppo anche John Macmurray, che Polanyi cita qui sotto, riferendosi probabilmente al saggio di Macmurray “Christianity and Communism: towards a synthesis” pubblicato nel volume Christianity and the Social Revolution, ed. by J. Lewis, K. Polanyi e D. K. Kitchin, Londra 1935.]
[4] [Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Id., Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1963, p. 44. (Marx sta esaminando il § 279 dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel).]
[5] [Guild Socialism re-stated, London, Parsons.]
[6] [Per “democrazia funzionale” Polanyi intende, come l’austromarxista Otto Bauer, un’organizzazione consiliare in cui le scelte vengono costruite dal basso, a partire dalle diverse funzioni esercitate dagli individui, nella produzione, ma anche nel quartiere, in istituzioni culturali ecc.]
[7] [Edmondo Rossoni fu segretario dell’Unione italiana del lavoro fondata nel 1918 e poi della Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali, ancora dalla fondazione, all’inizio del 1922. Mussolini mostrò di condividere le sue idee in occasione dello sciopero di Dalmine (marzo 1919). Giuseppe Bottai fu sottosegretario al Ministero delle Corporazioni dal 1926 al 1929 e poi ministro fino al 1932.]
[8] [Nella Critica… sopra considerata.]
[9] [Polanyi cita il proprio saggio “L’essenza del fascismo”, in La libertà in una società complessa, op. cit., p. 115, pubblicato originariamente nel 1935 nel già citato volume Christianity and the Social Revolution (cfr. supra, note 1 e 3).]
[10] [“The Breakdown of the International System”, ms., terza di cinque conferenze tenute nel 1940 al Bennington College (Bennington, Vermont, USA).]
[11] [Il movimento originato dalle idee e dalle riforme attuate da Robert Owen (1771-1858).]
[12] [Joseph Chamberlain (1836-1914) fu Ministro del Commercio (1880-1885) e delle Colonie (1895-1903). Esponente della sinistra del Partito Liberale, poi cofondatore del Liberal Unionist Party (1886), sostenne tuttavia l’espansione imperiale britannica, e poi la Imperial Preference, cioè l’introduzione di tariffe doganali che proteggessero l’Impero nel suo insieme dalla concorrenza esterna. Egli perseguiva in tal modo l’ideale della potenza britannica, anche giustificandolo come mezzo per mantenere un buon livello salariale e assistenziale all’interno (il “protezionismo interno” secondo Polanyi), al quale Chamberlain si era dedicato in precedenza.]
(29 ottobre 2019)

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