È ancora presto per dare un giudizio definitivo su questa vicenda e c’è già chi viene fuori a parlare di un complotto dei poteri forti – i petrolieri – per affossare una ditta che gli faceva concorrenza. Potrebbe anche essere, ma la cosa più probabile è semplicemente che ci troviamo di fronte a un altro caso di una tecnologia millantata come miracolosa, o quasi, e che poi si rivela inutilizzabile in pratica.
È un problema di ordine generale: quando ci troviamo di fronte a delle serie difficoltà, tipo inquinamento, cambiamento climatico, problema energetico, eccetera, tendiamo a cercare la tecnologia miracolosa che cambia tutto per non cambiare niente.
Per l’energia, per esempio, abbiamo visto di tutto e di più in termini di invenzioni strambe che dovevano sostituire il petrolio: vi ricordate la storia dello scaldabagno atomico chiamato “E-Cat”?Ora, di fronte alle microplastiche che ci assediano, la soluzione ovvia sembrava di ricorrere alle bioplastiche che avrebbero dovuto sostituire completamente le plastiche convenzionali senza che nemmeno ce ne accorgessimo.
Ma, al contrario delle plastiche convenzionali, il prefisso “bio” rendeva le bioplastiche al contempo ecosostenibili e degradabili senza lasciare tracce.
In pratica, le cose si sono rivelate molto più difficili del previsto.
Uno dei punti forti della plastica convenzionale è quello di essere chimicamente inerte, cosa che la rende utile per tante cose, tipicamente come contenitore per alimenti.
Ma se noi vogliamo una plastica che sia biodegradabile (o compostabile, non è la stessa cosa ma non entriamo nei dettagli) allora non può essere inerte, ma se non è inerte allora non è detto che vada bene per contenere alimenti.
Per questo problema, siamo riusciti a trovare un buon compromesso per i sacchetti del supermercato in bioplastica che sono abbastanza sottili da essere compostabili (perlomeno negli impianti industriali) ma anche abbastanza resistenti da essere utilizzabili per quello che devono fare.
Ma non va altrettanto bene per altri oggetti in bioplastica, tipo bicchieri, posate, e piatti, che sono troppo spessi per compostare negli impianti e si rivelano un grosso problema di inquinamento.
Ma ci sono altri problemi con le bioplastiche: uno è che raramente sono al 100% fatte con materiali sostenibili, ovvero di provenienza biologica. Poi, anche se una bioplastica fosse al 100% di provenienza agricola, non dobbiamo dimenticarci che l’agricoltura è fortemente dipendente dai combustibili fossili e, di conseguenza, i prodotti agricoli non sono necessariamente sostenibili.
Infine, se dovessimo espandere la produzione di bioplastiche da prodotti agricoli al livello dell’attuale produzione di plastica convenzionale, finiremmo per entrare in concorrenza con la produzione alimentare con conseguenze molto spiacevoli per tanta gente.
In questo quadro, la Bio-On si inseriva con un prodotto potenzialmente molto interessante: un polimero generato per fermentazione batterica dagli zuccheri o da scarti alimentari. In principio era un processo sostenibile.
La ditta sosteneva anche che il polimero fosse biodegradabile in acqua, anche questa una caratteristica interessante.
Ma, come sanno bene quelli che si occupano di innovazione tecnologica, sulle lapidi del cimitero delle nuove tecnologie c’è scritto “in laboratorio funzionava.” È probabile che sia stato proprio questo l’ostacolo che la Bio-On non è riuscita a superare: industrializzare il suo prodotto a costi ragionevoli.
Di nuovo vediamo come la ricerca di tecnologie miracolose spesso non faccia altro che danni.
Eppure, per quanto riguarda l’inquinamento da plastica, una tecnologia miracolosa esiste per abbatterlo e sappiamo anche che funziona benissimo. Consiste semplicemente nell’usare meno plastica, se possibile per niente. Allora, perché non provarci?
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