In un libretto pubblicato da Cortina, alcuni brevi scritti di Kant e una salace riflessione di Constant ci inducono a chiederci se e in quali circostanze è lecito mentire.
|
Domandiamoci in primo luogo se l’essere sinceri costituisca una
forma di dovere inderogabile; e poi, qualora ci ritrovassimo in accordo
di massima con il principio dell’assoluta veridicità, deriviamone
un’ulteriore domanda sul valore dei principi generali per la vita
concreta.
Questi i due interrogativi fondamentali, che emergono dal
libricino pubblicato da Cortina, intitolato: “Bisogna sempre dire la
verità?”, e che raccoglie alcuni brevi scritti di Immanuel Kant
sull’imperativo morale della sincerità (ma anche una salace riflessione
di Benjamin Constant sul medesimo tema).
Il volumetto, presentato da una
bella introduzione di Andrea Tagliapietra, non è un saggio filosofico
di difficile lettura, nonostante l’annunciato peso metafisico della
parola “verità”.
Una parte dei testi qui raccolti sono piccoli scritti
d’occasione, non tutti degni di considerazione filosofica, che possono
incuriosire più che altro i lettori affezionati al grande Kant.
Tuttavia, il volume include tre perle, che da sole valgono l’intero
libro.
In apertura, c’è un intervento pubblico del filosofo francese
Constant, pienamente immerso nella coda di assestamento della
Rivoluzione (con la sua adesione alla politica del Direttorio), che può
essere letto seguendo diverse chiavi interpretative, comunque
interessanti.
Constant prende le mosse dalla tesi kantiana
dell’obbligatorietà di dire il vero in qualunque circostanza, come
imperativo morale a priori, per negarne l’applicabilità concreta.
Vi
sono circostanze, infatti, in cui occorre mentire per salvare la vita di
un altro essere umano.
In tal caso, la menzogna non può avere il
carattere di ingiustizia, ma corrisponde al suo opposto. Sulla scorta di
questa osservazione, Constant solleva un altro problema, forse per lui
più sensibile, che concerne la natura dei principi generali. Bisogna
pensare al giacobinismo, nascosto tra le righe di Constant, quando egli
rileva che solo chi non è in grado di ripristinare ciò che è stato
spazzato via dalla storia, se la prende con la responsabilità dei
principi astratti come causa del fanatismo rivoluzionario, e per altro
verso chi non è in grado di portare avanti i propri propositi, accusa i
principi astratti di impotenza. Tutti se la prendono con i principi.
Il
problema è che in molti sono convinti di scorgere con chiarezza la
giustezza di alcuni principi, e di riconoscerli come puri, ma non è
facile scorgere i principi “intermedi”, quelli che ne regolano la
pregnanza pratica.
Se ne deve dedurre che i principi sono astrazioni inutili, e che
occorre solo un po’ di buon senso? Non è così, secondo il filosofo
francese: “Dicendo che i principi astratti sono solo teorie vane e
inapplicabili, essa enuncia, a sua volta, un principio astratto, perché,
appunto, questa opinione non è un fatto particolare, ma un risultato
generale” (p. 85).
Non si può lasciare tutto all’arbitrio. Senza punti
d’appoggio, conclude saggiamente Constant, tutto vacilla.
Immanuel Kant resiste pochi giorni alla tentazione di replicare
all’articolo in cui era stato chiamato polemicamente in causa (senza
essere mai stato citato direttamente, ma riconoscibile sotto la semplice
etichetta “un filosofo tedesco”, adoperata da Constant), e pubblica un
articolo di risposta a strettissimo giro. Lo stile di Kant è sempre
fulminante, e coglie immediatamente il difetto tecnico del suo
bersaglio: “è da rilevare, innanzitutto, che l’espressione ‘avere
diritto alla verità’ è priva di senso” (p. 88). E ha ragione. In punta
di logica, le obiezioni di Constant al principio di veridicità non
reggono. Dire la verità, osserva Kant, è un diritto e un dovere, di tipo
incondizionato. Nel caso dell’assassino, la conseguenza drammatica di
un’eventuale risposta sincera non dev’essere attribuita a chi sceglie di
non mentire, ma a circostanze altre mai completamente controllabili. Ad
esempio, può darsi che il delitto venga commesso, ma anche che mentre
il padrone di casa dice ciò che sa, il perseguitato riesca a fuggire da
una finestra e salvarsi. Vale lo stesso in caso di bugia: l’assassino si
allontana, ma magari nel frattempo la sua preda era uscita di soppiatto
e incontrando il carnefice che si allontana potrebbe restarne ucciso.
Mentire è in contraddizione con l’umanità stessa. Chi mente, riduce sé
stesso a meno di una cosa. Delle cose infatti si può riconoscere
un’utilità. Di un mentitore, nessuno sa cosa farsene. Kant sembra aver
ragione, ma quell’appello di Constant a cercare anche i principi
intermedi per l’applicazione alla prassi di regole generali, continua a
stuzzicare il nostro animo, perché non si può non scorgere un pezzo di
verità anche in quel punto di vista.
Vale la pena di chiudere con una bella citazione che mi è capitato
di ritrovare nel libro, in una lettera inviata da Kant alla signorina
Maria Von Herbert: “Il valore della vita in generale, come quantità di
bene di cui possiamo godere, è sopravvalutato dagli uomini. La vita è
invece degna di valore per ciò che noi possiamo fare di buono e occorre
conservarla con rispetto e cura e servirsene lietamente per buoni scopi”
(p. 141). La prima cosa buona che possiamo fare, evidentemente, è
essere e rimanere persone sincere. E non è affatto una cosa da poco, né
semplice.
(29 ottobre 2019)
Nessun commento:
Posta un commento