lunedì 7 ottobre 2019

Il futuro del lavoro è un ritorno all’Ottocento.




Una riflessione sul futuro del lavoro dopo il passaggio dal compromesso keynesiano – lo Stato sostiene la domanda attraverso politiche di piena e buona occupazione per incentivare i consumi e alimentare così la domanda di lavoro – al sistema neoliberale – incentrato sul sostegno dell’offerta attraverso lavoro precario, salari bassi e bassa pressione fiscale sulle imprese.
 

micromega Alessandro Somma

1. Dal compromesso keynesiano al lavoro neoliberale

La relazione di lavoro deve assomigliare a una qualunque relazione di mercato: lo pretende l’ortodossia neoliberale, secondo cui l’incontro di domanda e offerta di lavoro deve essere libera tanto quanto l’incontro della domanda e dell’offerta di una merce qualsiasi. Non vi può essere attenzione alcuna per la parte debole della relazione, privata così delle tutele che solo un mercato regolato può assicurare. Neppure vi possono essere ingerenze nell’individuazione dei livelli salariali, dal momento che la redistribuzione della ricchezza viene affidata unicamente al mercato. Per questo si affida al welfare un ruolo limitato, in linea con l’idea che esso rappresenta un incentivo all’inattività: l’inclusione sociale viene fatta coincidere con l’inclusione nel mercato e nulla deve mettere in discussione questo principio.


Fin qui la dimensione individuale della relazione di lavoro secondo i neoliberali. La dimensione collettiva è invece dominata dalla medesima idea che condiziona la disciplina antitrust: occorre impedire le concentrazioni di potere economico, considerando tali anche le coalizioni dei lavoratori in quanto destinate a impedire che il salario e le tutele siano decise attraverso il libero incontro di domanda e offerta di lavoro. Se infatti i lavoratori sono soli davanti al datore di lavoro, sono costretti a reagire in modo automatico agli stimoli del mercato del lavoro, ovvero ad accettare bassi salari in caso di disoccupazione elevata (non a caso alimentata dai neoliberali).

Il modo neoliberale di intendere il lavoro si è imposto come reazione al compromesso keynesiano e ai suoi effetti, sperimentati nel corso dei cosiddetti Trenta gloriosi: il periodo tra la conclusione del secondo conflitto mondiale e la metà degli anni Settanta. Per molti aspetti quei decenni non sono stati davvero gloriosi per i lavoratori, ma se non altro all’epoca si è imposto lo schema secondo cui lo Stato doveva sostenere la domanda attraverso politiche di piena e buona occupazione per incentivare i consumi e alimentare così la domanda di lavoro. Questo schema aveva però incrementato il potere dei lavoratori e anche per questo è stato rovesciato nel momento in cui, con l’implosione del mondo socialista, il capitalismo non ha più avvertito la necessità di mostrarsi con un volto umano. Il risultato è un sistema incentrato sul sostegno dell’offerta attraverso lavoro precario, salari bassi e bassa pressione fiscale sulle imprese, in quanto tale capace di determinare livelli elevati di disoccupazione e contenuti di conflittualità.

Il tutto promosso dall’Unione europea, vero e proprio dispositivo neoliberale concepito per azzerare il compromesso keynesiano e impedire la sua rinascita. Quest’ultimo ha bisogno di confini per regolare la circolazione dei fattori produttivi, a partire dai capitali: se circolano liberamente, gli Stati sono costretti ad abbattere i salari e la pressione fiscale sulle imprese per attirare investitori internazionali. Di qui la frizione insanabile tra questa Europa e una seria politica di redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso.

2. La voucherizzazione del lavoro

Il superamento del compromesso keynesiano in senso neoliberale viene accompagnato da una retorica incentrata sulla denigrazione del Novecento: l’epoca del posto fisso in cui il lavoro era ripetitivo, sempre identico a se stesso e dunque incapace di realizzare le persone. Ecco perché occorrerebbe sbarazzarsi del passato e inseguire un futuro radioso nel quale il lavoro rispecchia le aspirazioni delle persone e dunque consente loro di emanciparsi.

Questa retorica mostra tutta la sua ipocrisia quando viene utilizzata per mostrare i vantaggi della cosiddetta economia on demand: l’economia a misura di piattaforme concepite per favorire l’incontro della domanda e dell’offerta dei cosiddetti lavoretti, come la consegna del cibo a domicilio o il trasporto di persone. Queste piattaforme fanno sorgere relazioni di lavoro che davvero sono degradate a relazioni di mercato qualsiasi: nascono e terminano alla bisogna e non prevedono alcun obbligo accessorio da parte del datore di lavoro. Quest’ultimo non si presenta del resto come tale, dal momento che le piattaforme considerano i loro dipendenti come lavoratori autonomi, che in effetti possono rifiutare la singola chiamata. Peraltro, se questi rifiutano la chiamata, o eseguono la prestazione lavorativa con modalità non gradite alla piattaforma, un algoritmo affiderà loro sempre meno lavoretti, sino a lasciarli a casa: ovvero sino a licenziarli. Il tutto a riprova che esiste un sistema di controllo capillare dei datori di lavoro sui loro datori di lavoro, tanto che si è parlato a questo proposito di taylorismo digitale, e dunque l’elemento su cui si fonda la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato.

Il lavoretto è insomma il lavoro del futuro, che però ha lasciato il Novecento per tornare all’Ottocento, quando la relazione di lavoro era ancora una relazione di mercato qualsiasi. Come si è del resto voluto fare anche con il sistema dei voucher (decreto legge 24 aprile 2017, n. 50), un nome particolarmente evocativo: se per denominare un lavoro si utilizza una espressione utilizzata per indicare un mezzo di pagamento, allora è palese la volontà di ridurlo a merce, di concepirlo come un mero scambio di attività umana contro un corrispettivo.

Fin qui il ritorno all’Ottocento dal punto di vista della dimensione individuale della relazione di lavoro. Lo stesso vale però anche per la dimensione collettiva, e non solo perché la precarietà costituisce un ostacolo insormontabile allo sviluppo di una dialettica relativamente equilibrata tra capitale e lavoro. L’ortodossia neoliberale mira a neutralizzare il conflitto redistributivo e a indurre i lavoratori a tenere un comportamento collaborativo con i datori di lavoro, e a tal fine ricorre a due strumenti non a caso imposti dalla Troika ai Paesi europei come contropartita per l’erogazione di prestiti.

Il primo strumento riguarda il potenziamento della contrattazione territoriale o aziendale, dove il sindacato è più debole, a scapito di quanto definito in sede di contrattazione a livello nazionale, dove il sindacato è più forte. E a volte persino a scapito della legge, come ha stabilito una disposizione emanata dall’ultimo governo Berlusconi (art. 8 decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138), all’epoca in cui la Troika minacciava di intervenire in Italia.

Il secondo strumento riguarda il salario, la cui entità viene agganciata agli utili d’impresa, con il chiaro intento di sterilizzare il conflitto di lavoro: è evidente che il lavoratore il cui salario dipende dalla produttività sarà notevolmente disincentivato a ricorrere allo sciopero o ad altre forme di lotta divenute troppo costose.

3. Un ritorno al welfare dell’Impero tedesco

Il riferimento alla contrattazione aziendale consente di mettere a fuoco un altro aspetto qualificante il ritorno all’Ottocento, e in particolare all’Impero tedesco negli anni immediatamente successivi all’emanazione della Legge contro la Socialdemocrazia (del 22 ottobre 1878). La legge volle affrontare il conflitto di classe con misure repressive rivelatesi tuttavia inefficaci, motivo per cui l’Imperatore Guglielmo I maturò la convinzione che la sterilizzazione della lotta politica dovesse passare, oltre che dalla repressione, anche e soprattutto dal sostegno al benessere dei lavoratori. Di qui, nel solco di quanto si era sperimentato presso le acciaierie Krupp, l’istituzione del primo sistema moderno di sicurezza sociale, ovvero un’assicurazione obbligatoria per le malattie, gli infortuni, l’invalidità e la vecchiaia.

Questa vicenda avvia la nascita dello Stato sociale in area europea, che come si vede ha poco a che vedere con la volontà di emancipare i lavoratori. Perché ciò avvenga, occorre un sistema di diritti sociali attraverso cui impedire che la prestazione sociale diventi la contropartita per la fedeltà al potere politico o comunque per la rinuncia al conflitto redistributivo. E tuttavia anche in presenza di diritti sociali si possono determinare svolte regressive: è quanto sta avvenendo con il welfare aziendale, ovvero con l’erogazione di beni e servizi da parte del datore di lavoro, sovente in sostituzione di un incremento salariale.

Questa misura, sponsorizzata attraverso un sistema di agevolazioni fiscali e contributive in deroga al principio della totale tassabilità dei redditi da lavoro (art. 51 Testo unico delle imposte sui redditi), riguarda sempre più sovente ambiti interessati dal sistema dei diritti sociali come la sanità e la previdenza. In tal modo si incentiva il progressivo smantellamento del welfare universale, o comunque si forniscono alibi per questa deriva. Inoltre si favorisce la privatizzazione del sistema della previdenza e assistenza sociale, dal momento che i beni e servizi di cui si parla sono necessariamente erogati da soggetti privati.

Il risultato è potenzialmente devastante. Il lavoratore che perderà il posto finirà per perdere anche il welfare, e anche per questo sarà indotto a comportarsi come gli operai di Krupp: accetterà i beni e servizi concessi dal datore di lavoro in cambio della rinuncia alla lotta politica. A conferma di quanto il futuro radioso che ci aspetta sia un drammatico ritorno al passato.


Il testo sintetizza la relazione tenuta alla Scuola estiva di formazione “Il ritorno della politica” (Frattocchie, 6-8 settembre 2019).

(2 ottobre 2019)

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