lunedì 7 ottobre 2019

Insegnare filosofia nella società delle competenze.

A cosa “serve” la filosofia? È una domanda ricorrente, specie quando si tratta del suo insegnamento nelle scuole. Come se ormai nel nostro sistema scolastico si dovesse insegnare solo ciò la cui utilità è immediatamente visibile. Qualche riflessione sulla didattica della filosofia.




micromega Carlo Scognamiglio
L’insegnamento della filosofia nella scuola costituisce in sé stesso uno stratificato problema filosofico. Periodicamente messa in discussione, la trasmissione e la perpetuazione di una lunga e profonda tradizione di pensiero è paradossalmente in pericolo anche quando viene difesa o tutelata. Che l’Italia sia rimasta uno degli ultimi sistemi scolastici a contemplare un dignitoso spazio per le discipline filosofiche negli indirizzi liceali, è certamente il segno di una qualità notevole del nostro sistema formativo. Ma occorre stare attenti, che a volte per proteggere il bambino, rischiamo di soffocarlo.

Il documento “Orientamenti per l’insegnamento della filosofia nella società della conoscenza” (2017), redatto da un prestigioso team di esperti su impulso del MIUR, è certamente un testo di grande interesse, che si muove senza ingenua passività nei meandri delle innovazioni didattiche e pedagogiche dell’ultimo quarto di secolo, mutuandone il lessico ma provando ad adattarlo, in una logica più umanistica e – in buona sostanza – riempendolo di significati. Tuttavia, già a una prima lettura si può provare un certo prurito, incontrando più e più volte nel testo la parola “strumenti”, come se ci si ponesse in posizione difensiva, ribadendo l’utilità di questa disciplina nel nostro sistema educativo. Almeno esteticamente, si esibisce uno stile espressivo anglo-sassone, con tanto di lessico ingombro dei vari critical thinking, debate, et similia. Niente di male, in ciò, ma è comunque sintomatico.

Di cosa? Comprensibilmente, i filosofi italiani paiono avvertire la necessità di ricordare a sé stessi e agli altri l’utilità della filosofia per la vita, e addirittura per l’incontro con il mercato del lavoro, fino a proporne l’estensione dello studio negli istituti tecnici e professionali. La società è quella che è, e la domanda di utilità pare ineludibile. Tuttavia, come ripeteva Aristotele, la filosofia ha il destino di non servire a nulla, perché non può essere piegata ad alcuno scopo, senza essere snaturata. Nel momento in cui diventa strumento, smette di essere filosofia, perché smarrisce la libertà che la contraddistingue come movimento del pensiero autonomo e disinteressato. Non serve dunque, eppure è importante. E lo è perché è umana, si è storicamente consolidata come necessità di comprensione e indagine sul mondo e sulla socialità, sulla psiche e sui nessi logici. La filosofia è autocoscienza. Se come tale qualcuno potrà trovarci qualche utilità pratica (strumento utile per la flessibilità cognitiva, per una dialettica efficace o per altre “funzioni” operative), la cosa sarà del tutto accidentale ed estrinseca rispetto alla necessità interna del discorso filosofico.

Riuscire a cogliere la filosofia e ad impossessarsene in questa sua dimensione disinteressata, è forse la conquista pedagogica più alta cui l’insegnante può tentare di ambire.

La professoressa Annalisa Caputo (Università di Bari) ha scritto un voluminoso Manuale di didattica della filosofia (Armando, 2019), in cui si manifesta con una certa chiarezza l’imbarazzo in cui può trovarsi chi oggi aspiri a diventare docente di filosofia nella scuola secondaria. Per un verso, infatti, la Caputo ha il merito di ricordare la complessità stessa del nesso tra didattica e filosofia, la quale, se insegnabile, dovrebbe avere quanto meno una definizione univoca, il che non è. La nostra tradizione si appoggia all’idealistica coincidenza tra la filosofia e la sua storia, ma è spesso bersagliata da un fronte interno, che anelerebbe a una didattica per temi o per problemi. D’altro canto, non è casuale che tanto il documento degli “Orientamenti” quanto il libro di Annalisa Caputo trascurino entrambi la circostanza per la quale nella maggior parte dei nostri licei, in particolare il classico e lo scientifico, l’insegnante di filosofia coincida con quello di storia. L’associazione tra le due discipline non è vacua, ma ha radici filosofiche profonde, che andrebbero discusse, prima di essere eluse o disarticolate.

Le notazioni positive inanellate dalla Caputo a proposito della sezione delle Indicazioni nazionali dedicata alla filosofia pare del tutto condivisibile, ma incuriosisce l’assimilazione nel proprio discorso della didattica per competenze, rivendicandone una chiave di lettura ermeneutico-esistenziale. Scrive l’autrice: “Proponiamo di provare a leggere ermeneuticamente il rapporto tra conoscenze, abilità e competenze. Conoscenze e abilità fanno maturare nuove competenze; nuove competenze consentono (tra l’altro) una acquisizione sempre più matura e approfondita delle conoscenze e una crescita delle abilità: che saranno la base per lo sviluppo di altre competenze. Questa non è la scuola: è la vita. E può essere scuola, se la scuola prende a modello la vita” (p. 106). In tutta onestà, questo adattamento non pare avere molto a che fare – se non attraverso una robusta forzatura – con la tradizione ermeneutica. Non c’è niente di male nel voler utilizzare un lessico corrente, ma non serve legittimarlo, in modo un po’ curioso, attribuendogli una profondità che non gli appartiene. Anche un cieco si accorgerebbe che la distinzione tra conoscenze, abilità e competenze è posticcia, e in gran parte d’Europa già abbondantemente superata. In Italia arriviamo su queste cose sempre un po’ in ritardo, innamorandocene dopo che altri le hanno prima partorite e poi ripudiate.

Per il resto, il manuale di Annalisa Caputo passa in rassegna una lunga serie di metodologie e idee didattiche per la presentazione di argomenti filosofici in classe. Alcuni di questi riferimenti appaiono un richiamo a tecniche note da tempo, come il cooperative learning o il brainstorming, ma sono affiancate da una serie di spunti più intriganti: alcuni praticabili e che definirei forse come “compiti di pseudo-realtà” (ad esempio la trasposizione in forme di comunicazione attuali di teorie e punti di vista dei secoli passati), altri troppo piegati sull’aspetto ludico per avere seriamente a che fare col pensiero filosofico.

Certamente si può ricorrere a forme di lavoro nuove, anche riposanti, anche dilettevoli. Tuttavia, nell’insegnamento della filosofia occorre sempre tenere a mente due fattori decisivi: il primo è determinato dal tempo. Le attività di pratica filosofica sono importanti, ma richiedono molto tempo se affrontate con perizia e scrupolo. E a volte questo tempo nella scuola non è sufficiente, per cui – come giustamente osserva la Caputo – si tratta di metodologie cui ricorrere a cadenza alternata con un approccio più classico e sicuramente più meditato. Infine, quando si insegna la filosofia non si aprono semplicemente delle questioni problematiche su cui esercitarsi a scandagliare punti di vista. Si tratta di connettere la riflessione dei nostri studenti su quanto fino a oggi l’umanità – e in particolare la nostra tradizione culturale – ha faticosamente maturato nel tempo, onde evitare, come protestava Hegel di fronte alla “smania di pensare con la propria testa”, che “ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa dell’altra”.

Da questo punto di vista, la sensibilità dell’autore della Fenomenologia dello spirito per il problema della didattica della filosofia suona oggi di straordinaria attualità: “Secondo la moda moderna, specialmente quella della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia, quanto imparare a filosofare senza contenuto (…), [ma] quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente (…) La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé e a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità”.

(1 ottobre 2019)

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