Ogni tanto, quasi
ogni giorno, in quel turbinio di indignazioni orarie che è diventato
il
dibattito pubblico si manifesta lo sdegno per le condizioni
di
sfruttamento di qualche lavoratore.
Il Manifesto CHRISTIAN RAIMO
Può capitare che faccia specie
che l’organizzazione dei concerti di Jovanotti
chieda volontari
per ripulire le
spiagge: zero euro per una giornata intera di lavoro,
compensata da un biglietto per il concerto e un gadget speciale.
Può
capitare che il segretario del
Partito democratico Nicola Zingaretti
posti un video-selfie
sventolando la busta paga di
28 euro di una
lavoratrice in
cassa integrazione di Mercatone Uno.
Ogni volta queste
storie sembrano svelare un arcano; in
realtà continuano a
nascondere il grande rimosso della politica italiana: la divisione
in
classi. Non è il lavoro che deve
tornare al centro del
discorso
pubblico, come insiste chiunque, dal governo
all’opposizione; è la classe.
Continuiamo a parlare di ceto
medio impoverito dalla crisi, di ragazzi italiani costretti a
lasciare l’Italia
per andare a fare i camerieri in
Inghilterra,
di persone che
non ce la fanno a arrivare alla
fine del mese; ne
parliamo come se queste persone non avessero un nome.
Beh, a
dispetto
della vulgata che le classi sociali non esistono più,
tutta questa gente appartiene a una classe sociale e un nome ce l’ha:
si
chiama proletariato.
Il proletariato non
è una strana forma
antropologica dell’ottocento,
operai con gli
occhi pieni di fuliggine che vivono
negli slum
nella cintura urbana di Liverpool – il proletariato
indica, anche nel riassunto più banale di
un’analisi marxista,
quella
classe che non ha rendite ma
vive di reddito da lavoro
salariale.
Come ricorda Mauro
Vanetti, nel suo ultimo libro La sinistra di destra, citando i dati
Istat, in Italia il 2,8 per cento
delle famiglie ha
profitto/interesse/rendita come fonte principale di reddito, mentre
più del 50 per cento
vive di lavoro
dipendente (compreso quel 10
e passa per cento di
false partite iva).
Se negli ultimi anni del
Novecento si è pensato
che la
divisione borghesia/proletariato non ci fosse più utile, e
che
fossimo diventati tutti classe
media o ceto medio; oggi ci
rendiamo conto invece che persino molti di
quelli che aspiravano alla borghesia si sono
proletarizzati.
Inoltre, a dispetto di quegli altri – ancora più
in malafede –
che parlano di
questa entità sociale come popolo, c’è da
obiettare che non
metterei nello stesso insieme
chi possiede una
fabbrica italiana – magari in crisi; e chi lavora – magari
sfruttato – per
quella fabbrica italiana.
Sembrano banalità?
A Marx
e Engels non lo sembravano.
Se ragioniamo di
coscienza di
classe, a me non serve a nulla avere la coscienza di
essere ceto medio impoverito: mi sale
al massimo un po’ di
depressione o di risentimento. Se io capisco invece che la mia
assenza
di diritti è determinata dai privilegi di qualcun altro, o
se realizzo come il mio pluslavoro
produca il plusvalore di qualcun
altro, forse posso sviluppare qualche sentimento politicamente più
spendibile.
Come
per esempio: l’odio di classe.
Anche questo,
dell’odio di
classe, sembra un concetto desueto, da ricacciare
nelle segrete della storia dopo averlo stigmatizzato a dovere.
Quando
Edoardo
Sanguineti lo rivendicò in un’uscita pubblica nel
2007, fu quasi
linciato; eravamo in epoca pre-crisi, le magnifiche sorti e
progressive del
neoliberismo erano un orizzonte che occupava tutta
la visuale.
Oggi, dodici anni
dopo, mentre l’odio personale, civico, il
cinismo sovranista (come
lo definiva con un conio caricaturale l’ultimo rapporto del Censis)
è comprensibilmente il
sentimento prevalente di ogni
discorso
pubblico, l’odio di
classe sembra ancora un tabù.
Sarebbe invece
sacrosanto riscoprirne il suo valore politico, proprio in contrasto
all’odio emotivo, individualizzato,
la bile scomposta che può
essere diretta a caso, contro i poveri, gli stranieri, o il vicino di
casa. L’odio di classe è semplicemente invece il modo in cui
questo rancore si traduce in
una potenza politica
– è sempre stato così – andando a riconoscere i responsabili
dello
sfruttamento, delle disuguaglianze, della ferocia delle
divisioni in classi.
Come può accadere
questo?
Non con le proteste
tanto meno quelle simboliche, forse.
Serve sbandierare
una busta
da 28 euro in un post? O indignarsi per la notizia del
plurilaureato siciliano costretto a
emigrare in uno Starbucks a
Dublino, del fisico nucleare
che fa il rider di Deliveroo, della
nigeriana che anche quest’estate passerà l’intera estate nel
ghetto di Foggia a raccogliere
pomodori per 25 euro a giornata?
Forse è necessaria invece organizzarla, la protesta, e darle
un
valore politico – la famigerata lotta di classe.
C’è una bella
differenza tra
protesta e lotta. La protesta è
spontanea, spesso
idiosincratica, può scoppiare e evaporare
nel giro di poco. La
lotta no, va
organizzata, ma soprattutto
coinvolge persone che si
sentono parte di uno stesso soggetto; per questo si è sempre detto
lotta di classe e non si è mai
parlato di protesta di classe.
Se in quest’estate
si vuole capire dove ripartire a sinistra, invece di agitare strani
soggetti
astratti: le periferie, il lavoro... ci si può leggere o
rileggere Il capitale di Marx, così per
l’autunno, che non sarà
facile, si è tutti un po’ un passo
avanti.
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