venerdì 2 febbraio 2018

Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere.

Oramai da molti anni, nel nostro sistema previdenziale sta maturando una vera e propria “bomba sociale” che va affrontata con urgenza[1]. Le sue origini affondano nella combinazione dei cambiamenti intervenuti nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale a partire dagli anni ’90 e, in particolare, con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo per il calcolo delle pensioni.


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  1. INTRODUZIONE: LA “BOMBA SOCIALE”

Il metodo contributivo, in primo luogo, ha irrigidito il funzionamento del sistema pensionistico: lo ha ancorato alla logica dell’equilibrio attuariale, ma a discapito dell’equità previdenziale; ha uguagliato i tassi di rendimento interni, ma riducendo fortemente le possibilità redistributive. In secondo luogo, da un lato, ha stabilizzato la spesa  e, anzi, tende a ridurne l’incidenza sul PIL; d’altro lato, a ciascuna generazione ripropone con più forza per la vecchiaia la stessa distribuzione dei redditi della vita attiva. Non da ultimo, ostacola la possibilità di adattamenti micro e macro delle prestazioni pensionistiche alle condizioni economico-sociali correnti.
A quest’ultimo riguardo, va ricordato che i sistemi pensionistici – pubblici o privati, a capitalizzazione o a ripartizione – pur con diversa trasparenza, svolgono la funzione di redistribuire  parte del reddito correntemente prodotto dalle generazioni attive a quelle anziane contemporanee.[2]
La redistribuzione tra generazioni contigue è sempre esistita, anche se solo a partire dal Novecento inoltrato si è svolta in modo significativo tramite i sistemi pensionistici. L’entità e le modalità dei trasferimenti intergenerazionali costituiscono un pilastro importante della coesione sociale di una collettività. Proprio per questo, i cambiamenti nell’entità e nelle modalità di tali trasferimenti andrebbero gestiti con la consapevolezza dei tempi con i quali maturano le loro conseguenze.

Un importante aspetto che non sempre viene considerato è che il reddito corrente trasferito a ciascun anziano certamente dipende anche da quanto egli ha fatto nel suo periodo di attività; ad esempio, da quanto egli ha contribuito al sistema pensionistico. Ma l’entità e le modalità del trasferimento dipendono anche e soprattutto dalla possibilità e dalla disponibilità delle generazioni attive di trasferire parte del reddito correntemente prodotto agli anziani contemporanei, e da tali scelte discendono più generali conseguenze economiche e sociali.
Nel secondo dopoguerra, quando i sistemi produttivi erano pressoché distrutti e il reddito prodotto era irrisorio, i sistemi pensionistici avevano ben poco da redistribuire agli anziani; pur essendo per lo più finanziati a capitalizzazione e, dunque, pur contando sulle riserve accumulate per ciascun iscritto, non poterono mantenere le loro promesse. L’indisponibilità corrente ad effettuare i trasferimenti promessi fu realizzata con modalità di mercato, attraverso l’inflazione.
Invece, negli Anni ’60, quando la ripresa produttiva e il boom economico generarono maggiori redditi, ci fu la possibilità e la volontà di redistribuirne una parte anche ad anziani che mai avevano contribuito ad un sistema pensionistico, come i lavoratori autonomi. Ciò fu tecnicamente possibile abbandonando il sistema a capitalizzazione, utilizzando l’elasticità del sistema a ripartizione e del metodo di calcolo retributivo.
A partire dagli Anni ’90, a seguito della perdita di controllo della spesa previdenziale avvenuta negli anni precedenti, con i minori tassi di crescita economica e l’invecchiamento demografico, le condizioni per gli attivi del trasferimento pensionistico sono divenute più onerose.
Tuttavia, riflettendo sulle riforme fatte da allora ad oggi, ci si deve chiedere:
  • In che misura sono giustificate dalla nuova situazione economico-demografica?
  • quanto invece sono dipese da cambiamenti discutibili nelle scelte economiche, sociali, politiche e culturali affermatesi nel periodo?
  • Quali sono i loro effetti sulla distribuzione del reddito e sulla sua crescita? In particolare, quali sono le loro conseguenze sulla partecipazione degli anziani al reddito correntemente prodotto e sulla tenuta del patto intergenerazionale e della coesione sociale del Paese?

  1. I DATI DI BILANCIO DEL SISTEMA PENSIONISTICO
L’analisi storica dei bilanci del sistema pensionistico mostra che le consistenti riforme della prima metà degli anni ’90 furono più che sufficienti a recuperare gli squilibri finanziari accumulati negli anni precedenti. Già dal 1996, il saldo annuale tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali è tornato ininterrottamente in attivo e nel 2016 è stato di circa 39 miliardi, pari al 2,3% del Pil (Tab. 1).

Tab. 1 – Spesa, entrate e saldi previdenziali IVS, 1990-2016 (milioni di euro)
Dati Pensioni Italia
Note: *Spesa netta: ottenuta sottraendo le erogazioni GIAS dalla spesa per prestazioni IVS; **Le entrate considerano l’insieme dei contributi ordinari, quelli volontari, residui, altre contribuzioni e trasferimenti, dai quali è escluso l’apporto dello Stato; ***Le trattenute Irpef vengono calcolate considerando il dato medio di contribuzione dei redditi pensionistici di natura previdenziale, pari a circa due punti percentuali di PIL.

Questa situazione finanziaria viene spesso ignorata o disconosciuta anche perché si fa confusione tra le voci previdenziali e quelle assistenziali[3] e non si tiene conto delle trattenute fiscali (che nel bilancio pubblico sono una partita di giro e incidono diversamente nei vari paesi)[4]. Inoltre, nei confronti internazionali, l’Eurostat inserisce nella spesa previdenziale IVS anche i trattamenti di fine rapporto (TFR e TFS), sopravalutando la nostra spesa di circa l’1,5% del Pil.[5]
Tuttavia, a fronte di questi saldi ampiamente attivi del bilancio previdenziale, le riforme stanno contribuendo a generare una strutturale insufficienza delle prestazioni pensionistiche. A causa dell’irrigidimento dell’assetto pensionistico, i numerosi giovani che oggi molto faticano ad entrare nel mondo del lavoro e anche i tanti quarantenni ancora costretti in rapporti lavorativi precari e con remunerazioni scarse avranno una copertura pensionistica corrispondentemente inadeguata.
La persistenza di condizioni reddituali sfavorevoli – prima salariali e poi pensionistiche – gravanti sulle stesse componenti di ciascuna generazione rischia di creare un indebolimento del patto sociale intergenerazionale e, più in generale, della coesione sociale nel Paese.
Per identificare meglio il problema, possiamo far riferimento ai suoi aspetti sia micro che macroeconomici.

  1. LE PREVISIONI MICROECONOMICHE
Richiamando l’analisi svolta nel Rapporto sullo stato sociale 2015 da R. Conti e M. Raitano[6] e successivamente ripresa da quest’ultimo[7], consideriamo un lavoratore entrato nel mercato del lavoro a 24 anni nel 1996, dunque pienamente inserito nel nuovo sistema contributivo. Immaginando una crescita futura del PIL dell’1% reale più 2% d’inflazione, se questo lavoratore avesse  una carriera piena, senza interruzioni contributive, andando in pensione a 69 anni[8], cioè dopo 45 anni di lavoro ininterrotto, avrebbe un tasso di sostituzione lordo che sarebbe del 74,5% se avesse una carriera dinamica (crescita salariale medio annua superiore dello 0,5% a quella del PIL) e del 92,5% se avesse una carriera lenta (crescita salariale medio annua inferiore dello 0,5% a quella del PIL). Sono tassi elevati, ma una carriera lavorativa ininterrotta per 45 anni è un’ipotesi molto difficile da realizzarsi.
Se il lavoratore con carriera lenta (e maggior tasso di sostituzione) perdesse un anno di contribuzione dopo 5 oppure dopo 3 di lavoro – accumulando comunque, rispettivamente, 38 o 34 anni di contribuzione su 45 anni di presenza nel mercato del lavoro – il suo tasso di sostituzione a 69 anni scenderebbe, rispettivamente, all’85% e all’81%. Sono valori ancora buoni, ma solo perché l’età di pensionamento è molto alta e la carriera salariale è poco dinamica.
Tuttavia, una carriera lenta è facile si accompagni a salari non elevati. Ipotizzando una retribuzione iniziale lorda di 15.000 euro nel 1996 (circa 23.000 euro a prezzi correnti), con 38 o 34 anni contributivi, l’ammontare della pensione sarebbe pari a 2,6 o 2,2 volte l’assegno sociale cioè, in base al suo valore del 2018 (453 euro mensili), sarebbe pari a 1180 e a 1010 euro mensili.
Se poi il lavoratore considerato avesse un contratto costantemente part-time o di lavoro parasubordinato (che prevede aliquote contributive più basse fino al 2018), con un salario iniziale di 10.000 euro nel 1996, accumulando 38 o 34 anni di contributi, la pensione a 69 anni sarebbe pari, rispettivamente a 1,49 o 1,15 volte l’assegno sociale (657 e 521 euro nel 2018).
Dunque, il metodo contributivo, associato ad un forte aumento dell’età di pensionamento, favorisce tassi di sostituzione elevati; ma questo indicatore rischia di essere fuorviante. Infatti, poiché il mercato del lavoro costringe a rapporti di lavoro saltuari e offre salari bassi, l’ammontare della contribuzione accumulata fa maturare pensioni insufficienti.
Si tratta allora di capire quali siano le condizioni contributive prevalenti nel mercato del lavoro italiano cioè la combinazione dei livelli salariali, della saltuarietà del rapporto di lavoro e dell’aliquota contributiva.
Prendendo in considerazione 10 anni di storia contributiva di un campione rappresentativo di lavoratori entrati in attività tra il 1996 e il 2001, dall’analisi svolta da M. Raitano[9] emergono i seguenti risultati:
  • il 44% del campione rappresentativo di lavoratori, ha avuto un salario lordo annuo inferiore a 12.000 euro almeno 3 anni su 10; il 20% lo ha avuto per almeno 6 anni.
  • Il rischio di basso salario è maggiore per le donne e per i meno istruiti
  • Solo il 36% ha una storia contributiva piena (almeno 468 settimane su 520); il 20% ha una contribuzione inferiore al 50% di quella piena. Ancora, donne e persone meno istruite hanno maggiori vuoti contributivi
Nell’insieme, nei dieci anni considerati, solo il 22,7% del campione ha accumulato una contribuzione pensionistica maggiore a quella di un lavoratore, sempre occupato come dipendente full time, con retribuzione lorda pari a quella mediana (21.000 euro annui nel 2010). Invece, il 44,5% ha accumulato meno del 60% di quel livello, attestandosi sotto la soglia che per i redditi indica la povertà relativa e che consentirà di accumulare una pensione corrispondentemente bassa. Quelli che oggi sono lavoratori con salari sotto la soglia di povertà, se la loro situazione lavorativa e l’assetto pensionistico non cambiano, saranno anche i pensionati poveri di domani[10]
La storia lavorativa e contributiva del campione di lavoratori indagato è solo quella del primo decennio e non sappiamo come sia stata e sarà quella successiva. Tuttavia si deve notare che il periodo considerato tiene conto molto parzialmente degli anni della crisi durante i quali la situazione occupazionale è nettamente peggiorata (e se si tiene conto del numero di ore lavorate e del livello dei salari, a tutt’oggi non accenna a migliorare).
Dunque, le generazioni che sono entrate nel mercato del lavoro dopo il 1996, quando è stato introdotto il sistema contributivo e hanno iniziato a diffondersi i contratti atipici, hanno già vissuto fin quasi la metà della loro vita attiva. Se nella rimanente parte replicheranno la stessa esperienza riguardante l’incidenza dei periodi d’occupazione e il livello delle retribuzioni e delle contribuzioni, una larga parte di loro, dopo aver avuto salari inferiori alla soglia di povertà relativa, maturerà una pensione corrispondentemente povera.
Questo scenario, per quanto possa essere attribuito all’introduzione nel sistema pensionistico di un criterio asetticamente attuariale, riflette scelte economico, politiche e sociali niente affatto neutrali. Le loro conseguenze socialmente inique ed economicamente controproducente si evidenziano ulteriormente analizzando le prospettive macroeconomiche delle relazioni tra il nostro assetto pensionistico e il complessivo sistema economico.

  1. LE PREVISIONI MACROECONOMICHE
Le previsioni aggiornate effettuate da M. Tancioni e E. Beqiraj con il modello MODEP utilizzato nel Rapporto sullo stato sociale[11] indicano che, nonostante l’invecchiamento della popolazione, il rapporto atteso nel prossimo trentennio tra la spesa pensionistica pubblica e il Pil (Fig. 1) sia costantemente in calo e si ridurrà di oltre 3 punti percentuali.
Pensioni Italia

Come nel Rapporto si mostra da anni, la “gobba” da sempre annunciata per giustificare tagli alla spesa pensionistica non ci sarà.
Dunque, sebbene la quota degli anziani sulla popolazione totale sia crescente, essi riceveranno una fetta del reddito corrente più piccola. Ne segue (Fig. 2) che il valore medio delle pensioni diminuirà sia rispetto a quello del salario medio, da circa il 58% attuale a circa il 45% nel 2035  (linea continua) sia rispetto al Pil per occupato, dall’attuale valore di circa il 22% a poco più del 16% nel 2036 (linea tratteggiata).
Pensioni ivs e salario medio Questi dati indicano che, malgrado il sistema pensionistico sia in consistente avanzo finanziario e contribuisca positivamente all’intero bilancio pubblico, la scelta economica, politica e sociale fatta e confermata nel nostro paese è di ridurre la partecipazione complessiva e pro capite degli anziani alla distribuzione del reddito, il che penalizzerà in misura crescente proprio le generazioni che oggi arrancano nel mondo del lavoro e che tutti dicono di voler aiutare.
La nostra politica previdenziale presenta caratteristiche deleterie anche dal punto di vista degli effetti sulla crescita del complessivo sistema economico.
Il forte e crescente aumento dell’età di pensionamento accelerato con la riforma Fornero – aggravato dal suo incongruo adeguamento automatico in misura completa a quello della vita media attesa che la porterà a 67 anni dal 2019 – in un contesto di elevata disoccupazione, in particolare di quella giovanile, rappresenta un contro senso sociale ed economico; esso è il risultato dell’applicazione di una visione puramente finanziaria e niente affatto neutrale che mette a rischio la coesione sociale attuale e futura tra la popolazione attiva e quella a riposo.
Costringere a rimanere in attività chi già pensava che avrebbe potuto smettere e contestualmente ostacolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, non solo genera frustrazioni individuali contrapposte che gravano sugli equilibri sociali, ma peggiora la dinamica della produttività, le possibilità di innovare i processi produttivi, la capacità competitiva del nostro sistema produttivo e la crescita strutturale del reddito.

  1. CONCLUSIONI e alcune indicazioni di politica sociale

Se si proietta nei prossimi due-tre decenni la situazione attuale del sistema economico e dell’assetto pensionistico, larga parte di coloro che sono entrati nel mercato del lavoro a partire dalla metà degli anni ’90, oltre ad essere penalizzati da salari bassi e saltuari nella vita attiva, lo saranno in misura corrispondente anche come pensionati. E’ da questa corrispondenza che trae alimento la “bomba sociale” attesa.
L’elevata età di pensionamento favorirà tassi di sostituzione anche accettabili, ma che si applicheranno a retribuzioni finali già prossime o inferiori alla soglia del reddito di povertà.
Nei prossimi due decenni, il rapporto tra pensione media e salario medio diminuirà, così come il rapporto tra pensione media e Pil per occupato; dunque crescerà il divario tra i redditi degli attivi e quelli da pensione con inevitabili effetti negativi sul patto sociale intergenerazionale e sulla coesione sociale.
Poiché i sistemi pensionistici trasferiscono parte del reddito correntemente prodotto agli anziani, la loro situazione reddituale potrà migliorare rispetto alle attese se la dinamica del Pil sarà più accentuata e se ne saranno fatti compartecipi dalle future generazioni attive.  Ma per interrompere la tendenza in atto dell’impoverimento relativo degli anziani e per realizzare un’equa redistribuzione del reddito disponibile, qualunque sia il suo livello, occorrerà modificare l’assetto attuale, attenuando il collegamento rigido tra le prestazioni e i contributi versati.
Non si può continuare a rapportarsi alla “questione previdenziale” con un’ottica finanziaria e congiunturale, ignorando i delicati rapporti economici e sociali strutturali che essa implica. Le carenze del sistema economico che gravano sugli attuali disoccupati non possono essere estese anche ai loro redditi pensionistici.
Occorre smettere di considerare il sistema pensionistico come il “bancomat” cui attingere per cercare di migliorare i conti pubblici; essendo il sistema già in attivo di bilancio, persistenti prelievi a suo carico implicano un’ iniqua redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori/pensionati. Ma questo tipo di redistribuzione ha effetti negativi anche sulla domanda e sui tassi di crescita, contribuendo a ridurre il reddito che può essere diviso tra le varie generazioni.
Per non incorrere in questi effetti negativi sia sociali che economici, la dinamica della pensione media dovrebbe essere simile a quelle del salario medio e del Pil per occupato.
Per procedere in questa direzione, una misura necessaria è quella di riconoscere alle attuali generazioni attive, penalizzate da storie lavorative saltuarie, contributi figurativi per tutti gli anni di disoccupazione accertatamente involontaria.
Peraltro, le contribuzioni figurative non implicano esborsi immediati per il bilancio pubblico; in ogni caso, per il loro finanziamento futuro si può attingere ai saldi attivi già esistenti nel sistema pubblico di cui va tenuta la contabilità.
Viceversa, ogni tentativo di sostituire il sistema pubblico a ripartizione con quello privato a capitalizzazione implica la necessità di risorse aggiuntive nell’immediato, cioè di ulteriore risparmio in una situazione economica che, invece, richiederebbe maggiori consumi e investimenti.
In ogni caso, lo sviluppo della previdenza privata a capitalizzazione non potrà attenuare la “bomba sociale”; l’adesione ai fondi privati è accessibile a chi avrà già una storia lavorativa in grado di generare una pensione pubblica adeguata, ma non lo è per chi non maturerà una pensione pubblica insufficiente.
La previdenza privata, anche se utile a chi può aderirvi, comunque implica maggiori costi di gestione e prestazioni più incerte poiché legate alla variabilità dei mercati finanziari. Inoltre, a causa della struttura del nostro sistema economico caratterizzato da piccole e medie imprese per lo più non quotate in Borsa e a causa dallo scarso spessore del sistema finanziario, il nostro risparmio previdenziale gestito dai fondi pensione privati (circa 150 miliardi di euro) viene investito per circa il 70% (oltre 100 miliardi)  all’estero, dove finalmente si ricongiunge con i nostri giovani particolarmente istruiti e intraprendenti che non trovano occupazione in Italia; ma ciò avviene a favore di altri paesi e a detrimento della nostra crescita economica, sociale e civile.
Purtroppo, la politica economico-sociale e la politica tout court stanno perseverando in un approccio alla previdenza contrario agli insegnamenti della “Grande recessione” e controproducente per il benessere economico e sociale del nostro Paese[12].


*Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Economia e Diritto


Riferimenti bibliografici
Felice Roberto Pizzuti, (a cura di) 2017, Rapporto sullo stato sociale 2017. Stagnazione secolare, produttività, contrattazione salariale e benessere sociale, Sapienza Università Editrice, Roma.

Felice Roberto Pizzuti, (a cura di) 2015, Rapporto sullo stato sociale 2015. La grande recessione e il welfare state, Edizioni Simone, Napoli, 2015.

Felice Roberto Pizzuti 1995, Economia e politica della previdenza sociale, in O. Castellino (a cura di) Le pensioni difficili, il Mulino, Collana della Società Italiana degli economisti.

Michele Raitano (2017), Poveri da giovani, poveri da anziani? Prospettive previdenziali e vantaggi della pensione di garanzia, in Social Cohesion Paper N. 1/2017

Ragioneria Generale dello Stato 2017, Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, Rapporto n° 18.


[1] La tendenza in atto è stata messa in evidenza già in edizioni lontane del Rapporto sullo Stato Sociale (curato da chi scrive) e continuativamente approfondita fino alla sua ultima edizione (F.R.Pizzuti 2017). Le analisi e le previsioni presentate nel Rapporto vengono svolte anche con l’ausilio di modelli, sia deterministici sia econometrici, sviluppati da studiosi per lo più operanti nel Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza. In questo articolo si farà riferimento anche a risultati ottenuti da questi studi e modelli; in particolare, a quelli cui hanno contribuito Elton Beqjraj, Michele Raitano e Massimiliano Tancioni.
[2] Naturalmente ci sono differenze anche significative tra i vari sistemi che, ad esempio, riguardano i costi di gestione, il grado di sicurezza delle prestazioni e l’allocazione del risparmio pensionistico. Per un approfondimento si rimanda alle edizioni citate del Rapporto e a F. R. Pizzuti 1995
[3] A cominciare dal fatto che spesso si ignora del tutto il ruolo della Gestione Interventi Assistenziali (GIAS) che nel 2016 ha erogato prestazioni pensionistiche assistenziali pari a circa 45 miliardi di euro (Tab. 1)
[4] Nel 2016 le trattenute Irpef sulle pensioni sono state circa 42 miliardi (tab. 1), pari al 2,5% del Pil. In altri paesi, come in Francia, l’imposizione fiscale sulle pensioni è minore rispetto agli altri redditi mentre in Germania non c’è differenza tra prestazioni lorde e nette poiché le pensioni sono tassate nella fase contributiva.
[5] Cfr. Ragioneria Generale dello Stato 2017, da pag. 298.
[6] F. R. Pizzuti (a cura di) 2015, sezione 4.4
[7] In M. Raitano (2017), Poveri da giovani, poveri da anziani? Prospettive previdenziali e vantaggi della pensione di garanzia, in Social Cohesion Paper N. 1/2017
[8] l’età di vecchiaia prevista nel 2041.
[9] Nel già citato contributo di M. Raitano del 2017
[10] Sotto questa soglia c’è il 51% delle donne e il 39% degli uomini; il 35 dei laureati, il 42 dei diplomati e il 58% dei diplomati alla scuola media inferiore.
[11] Vedi, in particolare, le già citate edizioni del 2015, sezione 4.3 e del 2017, sezione 4.3. Le previsioni aggiornate sono state fatte nel 2018
[12] Per un approfondimento tra le motivazioni della “Grande recessione” e le politiche sociali si rimanda a Pizzuti 2015, sezione 1.1

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