Un’ingiustizia. Non c’è nulla da imparare da questa storia della delocalizzazione dell’Embraco, di alcune centinaia di posti di lavori che scompaiono a Chieri (Torino) e ricompaiono in Slovacchia.
Accusare gli slovacchi, poi, andare a chiedere a Bruxelles di “verificare”, è senza ragione: perché sono in Europa come noi, perché hanno un reddito pro-capite più basso del nostro, perché hanno bisogno di posti di lavoro come tutti, perché usano i fondi strutturali come li abbiamo usati noi e gli altri. Perché stanno nel mercato unico europeo come ci stiamo noi.
Non le abbiamo accettate queste regole, bensì desiderate, volute. In Italia come in nessun altro paese in Europa. Abbiamo visto come una benedizione il capitale straniero arrivare, senza chiedergli conto della sua responsabilità sociale (questo capitale che arriva non-importa-da-dove è responsabile del suo rendimento nei confronti di chi lo possiede, non certo degli operai o della comunità locale). Non c’è ragione per stupirsi, tutto previsto, prevedibile.
Queste crisi aziendali sarebbero tutta un’altra cosa se gli operai sapessero che il loro reddito non è a rischio. Non dovrebbero disperarsi loro e staremmo molto meglio anche noi che li stiamo a guardare. Noi che vantaggi magari ne abbiamo dalla delocalizzazione e svantaggi nessuno. Questo trasferire su poche persone, costrette ad affastellarsi ai cancelli della loro fabbrica per provare a difendersi, il costo dell’aggiustamento strutturale della nostra economia non è moralmente sostenibile. E diventerà presto anche politicamente non sostenibile.
Abbiamo scelto il modello di mercato (e di capitalismo) più rozzo tra quelli che potevamo scegliere. Lo abbiamo fatto senza neanche premunirci di introdurre istituzioni per compensare gli effetti indiretti peggiori, per non avere operai disperati costretti a urlare per farsi sentire. Un’ingiustizia. Da non sentirsi italiani.
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