“Ribellarsi non basta. I subalterni e l’organizzazione
necessaria” (pp. 100, euro 12,00). Recensione di Vittorio Bonanni al saggio
di Lorefice.
Quando
si parla di “subalterni” vengono in mente due figure centrali del
pensiero politico-filosofico e antropologico: da un lato Antonio
Gramsci, il primo a dare grande dignità culturale alle cosiddette classi
subalterne, identificando proprio con questo aggettivo chi era
schiacciato dal potere ma che si stava già attrezzando per trasformarsi
da oggetto a soggetto. E poi Alberto Maria Cirese, uno dei padri
dell’antropologia italiana scomparso pochi anni fa, il cui manuale
“Cultura egemonica e culture subalterne”, ispirato appunto alle tesi
gramsciane, è stato sfogliato a partire dal 1971 da tanti studenti e
intellettuali italiani interessati ad un tema che stava esplodendo, con
gli esclusi che non avevano più intenzione di rimanere tali reclamando
senza mezzi termini potere e diritti che la rinata democrazia si era ben
guardata dal dare loro. Ora il quadro è di nuovo cambiato e, come è
visibile agli occhi di tutti, la situazione di chi lavora e di chi
lavoro non ha è ben peggiorata rispetto alle grandi conquiste del
dopoguerra,senza che ci sia nessuno, o quasi, a dare loro una mano e
soprattutto a rappresentarli. Bene ha fatto dunque Fulvio Lorefice,
ricercatore in Storia dell’Età Contemporanea nei secoli XIX e XX presso
l’Università di Bologna, ad impegnarsi per far uscire, presso le
edizioni Bordeaux “Ribellarsi non basta. I subalterni e l’organizzazione
necessaria” (pp. 100, euro 12,00). Lo studioso prende in esame quello
strumento, entrato in una crisi verticale di immagine e di identità, che
una volta, certamente insieme alle organizzazioni sindacali,
rappresentava i lavoratori, ovvero i partiti di massa. La forma di
organizzazione politica storicamente più alta “è oggi ampiamente
screditata”, dice l’autore riferendosi ai partiti, non solo nel nostro
disgraziato paese ma anche dove queste organizzazioni hanno mantenuto
una loro maggiore dignità, come in Germania, Gran Bretagna, paesi
scandinavi e via dicendo. Con il risultato che l’elettorato, non sapendo
a chi rivolgersi, o non si reca alle urne, oppure premia formazioni
xenofobe e di estrema destra. Del resto sono proprio gli esclusi
quelli che ci rimettono da questa crisi della sinistra nella sua
complessità proprio perché, come dice lo stesso autore citando Alfio
Mastropaolo, i partiti secondo il pensiero liberale ottocentesco erano
“parti , pregiudizievoli dell’Unità dello Stato e del bene comune”,
sgraditi come erano e sono “perché schiudessero gli accessi ai quartieri
alti della politica e dello Stato anche alle classi inferiori e e alle
loro richieste”. Un fenomeno che malgrado le intenzioni della destra e
dei poteri forti è stato inarrestabile, rallentato certamente dalle due
grandi guerra e che ha conosciuto poi, dopo il ’45 una grande esplosine
democratica.
La forma storicamente più alta di organizzazione politica, il partito,
è oggi ampiamente screditata. Quale sostanza politica si cela dietro
questa circostanza? Quali sono le caratteristiche dell’ordinamento
politico-istituzionale venuto a delinearsi in questi anni? È possibile
restituire un senso e un’efficacia alla politica prescindendo dall’organizzazione?
Da Syriza a Podemos,
attraversando Gramsci, i Luoghi Idea(li) e il Partito sociale, in lungo
e in largo nelle pieghe dei meccanismi di dominio capitalistico,
Lorefice ricerca e indaga quegli strumenti politici e organizzativi in
grado di riaprire la contesa egemonica sulla «modernità».
Per una società giunta a un alto
grado di sviluppo e complessità, il tema dell’organizzazione politica
diviene pertanto centrale per restituire slancio e protagonismo ai subalterni, respingere un’idea di politica fatta da pochi e per pochi, pensare a un nuovo rapporto tra società e istituzioni.
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