Pioggia o neve, la consegna della cena a casa ordinata tramite app sarà sempre puntuale. Peccato che per i lavoratori, in bici o in motorino, non ci siano tutele. «Siamo pagati a cottimo, senza sostegno per le spese mediche». Questo e altri casi di lavori da incubo nel libro denuncia Italian Job.
L'Espresso Maurizio Di Fazio
"Non abbiamo l’assicurazione sanitaria, un monte ore settimanale, i contributi per la manutenzione dei mezzi, un’indennità per le condizioni meteo avverse e per i turni festivi, un limite di chilometri per le distanze da percorrere in bicicletta. E se ti becchi una polmonite non hai i soldi per saldare il ticket al pronto soccorso. Il telefonino occorre controllarlo di continuo. L’app ci invia un messaggio con tutti i dettagli, monitora la nostra velocità di marcia. Se ci sfugge il bip della notifica, l’ordinazione va a farsi friggere e con essa il nostro magrissimo compenso. Abbiamo retribuzioni non trasparenti, paghe basse e a cottimo» mi dice un fattorino, o meglio, un fattorino digitale, o meglio ancora un rider, come vengono chiamati oggi. «Chi protegge la nostra incolumità fisica quando a bordo di bici e motorini sgangherati vi portiamo vaschette di cibo caldo a domicilio, grazie alle app del momento?».Che nevichi o piova che Dio la manda, sono sempre lì, sulla strada, puntualissimi. Pedalano con tutta la forza che hanno in corpo per spaccare il secondo, per rispettare il cronogramma fissato per la consegna. A costo anche di passare col semaforo rosso o di rompersi la testa se prendono una buca, se l’asfalto è ghiacciato, se la pioggia offusca il mondo. «Ti racconto un paio di episodi – aggiunge il ragazzo, che preferisce restare anonimo -. Una volta la piattaforma per cui lavoro, venuta a conoscenza di un incidente, ha messo in discussione il fatto di dover pagare l’intero turno al rider che si era fatto male a metà servizio, e gli ha tolto i turni già programmati per lui quella settimana, senza fornirgli nessun tipo di sostegno per le spese mediche. Un’altra volta un mio collega si è ammalato e ha informato i nostri superiori di non poter svolgere il suo turno perché a letto con l’influenza. Vuoi sapere cosa gli hanno risposto? Che se fosse successo nuovamente ‘avrebbero riconsiderato il loro rapporto lavorativo’».
Un nuovo proletariato trasversale, tra i venti e i quarant’anni, s’avanza, zaino termico colorato e gigante in spalla, alimentato da studenti universitari, stranieri ed esodati dal mercato del lavoro tradizionale. Senza più diritti né tutele, senza possibilità di assunzione. No future, come divinavano i punk. Sottopagati on demand. A cottimo. Pagandosi da soli il mezzo a due ruote, la benzina e le spese di manutenzione. Sobbarcandosi persino certi rischi di impresa: se la merce che trasportano viene persa o danneggiata, ne rispondono loro. Con la spada di Damocle del tetto dei cinquemila euro sulla ritenuta d’acconto con prestazione occasionale e il ricatto dell’apertura di una partita iva che non ci si può permettere. E molti, allora, mollano. Ammesso che non si tirino fuori per cause di ulteriore forza maggiore: un trauma fisico dopo una caduta, o morale dopo un’umiliazione. Logistica in tempo reale. Eat in time. Si organizzano su gruppi e pagine Facebook dedicate, oppure via WhatsApp, dove vengono pure «sloggati», cioè licenziati direttamente.
Sono retribuiti su base oraria, quattro o cinque euro all’ora, o con due, tre, quattro euro a consegna. Le flotte vengono rinnovate a intervalli regolari, il turn over è la regola, e se a fine mese non si raggiunge una soglia minima di una quarantina di consegne l’accredito dello «stipendio» è rimandato al mese successivo.
«Caporalato digitale», l’ha definito Laura Boldrini. In effetti, il guadagno dei lavoratori della nuova era è molto simile a quello dei dannati dei campi di pomodori: pochi euro l’ora. I vecchi pony express se la passavano decisamente meglio. In Germania vanno sotto il nome di minijob, ma da quelle parti, si sa, il welfare funziona e i cittadini partono da un reddito minimo garantito di inclusione, una base solida per vivere.
È la gig economy, l’economia dei lavoretti, quelli che erano un secondo lavoro ma adesso sono tutto, spesso il massimo a cui si possa ambire, il non plus ultra.
Quando ordiniamo una porzione di spaghetti di soia, del sushi, un kebab, una delizia vegana o una ricetta etnica a scelta, pensiamo per un momento a loro, che per guadagnare cinquecento euro lordi devono pedalare l’equivalente di due giri d’Italia e l’acido lattico in esubero è soltanto l’ultimo dei problemi.
Addio volantini stropicciati, numeri fissi occupati, telefoni mobili inesistenti. Ora ordini e paghi in una manciata di secondi con lo smartphone, dal tuo ristorante preferito o più vicino, e dopo mezz’ora ti vedrai recapitato a casa o in ufficio il piatto sfornato poco prima. Alla piattaforma che fa da tramite tra il ristorante e il consumatore andrà una bella commissione di percentuale. Al fattorino che ha effettuato la consegna le briciole. Un business in straordinaria espansione.
In Italia i signori del food delivery sono tre app.
JustEat. Il motto è eloquente: «Ogni desiderio è servito», ovunque tu sia. Un gruppo fondato nel 2001 in Danimarca da Jesper Buch e che ha a Londra la sua sede centrale. È presente in tredici nazioni, dall’Europa al Canada passando per l’India, con oltre trentaseimila ristoranti integrati nel suo sistema.
Deliveroo. Il logo è un canguro. Lo slogan: «I ristoranti che ami, a domicilio in 32 minuti». Lanciata a Londra nel 2013, è già un’azienda da due miliardi di dollari.
Foodora. Tedesca di Berlino, è attiva in dieci Paesi dal 2014, ma la denominazione corrente risale all’anno seguente. Può attingere da un portfolio di novemila ristoranti selezionati. Il suo colore ufficiale è il rosa.
Per Gianluca Cocco, condirettore di Foodora Italia, la sua azienda sarebbe «un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio». Tutta salute, insomma, serotonina e muscoli tonici, e pedalando pedalando puoi anche raggranellare la cifra sufficiente per offrire una coppetta di gelato con una pallina alla tua morosa. Più felici di così…
Racconta un altro rider in giubbotto smanicato, city bike e lucette led: «Le aziende continuano a chiamarlo lavoretto. Se sarai disponibile e parecchio veloce, consegnerai tanto e salirai nel ranking, perché l’algoritmo ne tiene conto. Ma se avrai problemi, bucherai una ruota, ti ammalerai, partirai per le vacanze o sospenderai per un po’ la collaborazione, allora perderai posizioni su posizioni e la possibilità di intercettare altri slot orari. È la dura legge del food delivery».
A novembre la neve ha imbiancato e reso insicure le strade di Bologna. Contestualmente ha mosso i suoi primi passi Riders Union Bologna, un’associazione che si batte per la salvaguardia dei diritti dei lavoratori del pasto caldo a domicilio. Ho parlato con uno dei riders che animano la sigla. «Durante la nevicata del 13 novembre, nonostante il meteo a tinte fosche, le compagnie di food delivery ci hanno chiesto di lavorare. Molti di noi si sono però rifiutati, costringendole a sospendere il servizio. È stato il primo sciopero della nostra categoria a Bologna».
Le rivendicazioni promosse sono tante.
«Il minimo comun denominatore è il contratto, l’iniquità di bollare il nostro come un lavoro di serie B. Per molti è la prima fonte di reddito. Alla faccia dei lavoretti».
La formula alchemica è sempre la stessa: stipulare rapporti di collaborazione basati su prestazione occasionale.
«In verità i turni e le modalità di consegna sono generati dall’azienda e dai suoi algoritmi. Un gran numero di noi lavora per la medesima società da anni». Contro il cinismo delle multinazionali delle pietanze viaggianti, si staglia una consapevolezza nuova. «Sfrecciamo dalla mattina alla sera con i nostri loghi bene in vista, ma i nostri diritti e le nostre tutele sono invisibili, come un contratto decente e l’assicurazione per gli infortuni. Siamo lavoratori e lavoratrici, non ingranaggi di un meccanismo che non dovrebbe fermarsi davanti a niente e a nessuno. Mai più consegne senza diritti».
Nel 2015 il food delivery valeva centodieci miliardi di dollari, pari al 30-40 per cento del business del cibo in generale. E sono trascorsi tre anni. Certo, l’Italia non è l’America, il Giappone o la Corea del Sud, dove ormai molte pieghe del nostro quotidiano (da una visita specialistica a distanza all’acquisto, con recapito in tempo reale, di un proiettore 3D di ologrammi con risate pre-registrate delle sitcom vintage) vivono soltanto in rete, per mezzo di device tecnologici sempre più onnipotenti.
Le suonerie di notifica? I nuovi bioritmi. Ma i fattorini digitali non sono replicanti alla Blade Runner, e nemmeno droni fatti di legno, plastica, alluminio, carbonio, batterie ai polimeri di litio, antenne GPS e accelerometri. Restiamo umani.
Questo articolo è un estratto del libro di Maurizio Di Fazio "Italian Job" (Sperling & Kupfer)
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