La flessibilità del lavoro aumenta l'occupazione? È la tesi
che gli italiani si sentono ripetere da circa vent'anni. Tuttavia,
non
esistono prove che ciò sia vero. Anzi, molti economisti ritengono che
l'incertezza lavorativa si traduca in una maggiore propensione al
risparmio, con effetti depressivi sul mercato. Sul punto ha voluto
vederci chiaro l'Ufficio Valutazione Impatto del Senato che ha raccolto
in un solo report le teorie economiche delle ultime due decadi.
1. Il bilanciamento dei regimi di flessibilità e di protezione del lavoro
Circa 20 anni fa, non solo il nostro Paese ma tutta Europa e
buona parte degli Stati occidentali hanno intrapreso una lunga stagione
di riforme che ha profondamente modificato la disciplina dei rapporti
di lavoro nella speranza di bilanciare le esigenze delle imprese con la
disponibilità economica. La scelta comune è stata rendere più precaria
la posizione dei nuovi assunti per aumentare la base occupazionale. Dopo
quasi due decadi, quali sono i risultati? L’occupazione è aumentata o
diminuita? E la produttività? « L’Italia», si legge nel rapporto,
«presenta indici di flessibilità mediamente analoghi a quelli francesi e
tedeschi, con l'eccezione del regime di protezione per i lavori a tempo
determinato: qui il nostro Paese si colloca in una posizione intermedia
fra la Francia (significativamente più rigida) e la Germania
(significativamente più flessibile). Rispetto alla Spagna, l'Italia
fornisce maggiori tutele ai lavoratori nella disciplina dei
licenziamenti individuali e collettivi. Più debole, invece, è la
protezione dei lavoratori temporanei».
2. Il rischio depressione della domanda globale
Sulla carta, la flessibilità del lavoro, comunemente mal
vista, dovrebbe consistere nella possibilità di modificare le regole
contrattuali così da adattarle meglio ai contesti locali, rapportandola,
in particolare, alla capacità da parte dell'impresa di aumentare e
ridurre il numero di lavoratori al suo interno a seconda del bisogno. La
flessibilità, scriveva l'Ocse nel 2009, dovrebbe essere «tanto più
elevata quanto minori sono i costi di assunzione e licenziamento e
quanto meno rigida è la legislazione di protezione del lavoro». Il
regime flessibile si contrappone a quello rigido, inteso soprattutto
come maggiore difficoltà, per le imprese, a licenziare. Imbrigliare chi
produce con lacci e lacciuoli pubblici ha effetti negativi sulla
competitività. Il principale rovescio della medaglia della flessibilità
riguarda però il rischio di depressione della domanda globale:
lavoratori privi della sicurezza di uno stipendio fisso sono meno
propensi al consumo e all'indebitamento, paralizzando l'economia. In
più, viene sottolineato nel report, si concretizza il pericolo che la
limitata stabilità lavorativa disincentivi tanto le imprese quanto i
lavoratori a investire sulla formazione professionale.
3. Il ripensamento dell'Ocse già nel 1999
Ben prima che in Italia fosse promulgata la discussa legge
Biagi (2003), che introdusse nuove tipologie contrattuali di lavoro a
termine, l'Ocse aveva già iniziato a mutare orientamento in merito
all'assunto che una maggiore flessibilizzazione potesse favorire
l'ampliamento della base occupazionale. Nell'Employment Outlook del
giugno 1999 evidenziava l'assenza di correlazioni tra i regimi di
protezione lavoro (Rpl) e i tassi di occupazione. «Più recentemente»,
viene fatto notare nel report dell'Ufficio Valutazione Impatto del
Senato, «i Rpl riducono la resilienza dell'occupazione agli shocks
produttivi, il che contribuisce a spiegare la limitata elasticità
dell'occupazione durante la recessione iniziata nel 2008». Insomma, non
solo non sarebbe vero che la precarietà aumenta il numero dei
lavoratori, ma avrebbe reso le singole economie più fragili ed esposte
ai rigori della crisi.
4. L'impatto dei contratti a termine e i diritti diventati privilegi
Nel 2010, l'economista Kahn scriveva: «Non si è riscontrata
alcuna evidenza circa il fatto che tali riforme abbiano aumentato
l'occupazione. Sembrano piuttosto aver incoraggiato la sostituzione di
lavoro permanente con lavoro temporaneo». Alle medesime conclusioni
erano arrivati anche Bentolila, Aguirregabiria e Alonso-Borrego. La
migliore fotografia è stata scattata, nel 2007, dagli economisti Güell e
Petrongolo: «gli outsiders tendono a restare intrappolati nei lavori
temporanei, mentre gli insiders usufruiscono di stabilità lavorativa,
presidiata da solidi strumenti protettivi». Con la conseguenza, fatta
notare dall'italiano Boeri nel 2011, che i costi di aggiustamento dello
stock di lavoratori finiscono per scaricarsi sugli assunti a tempo
determinato. La flessibilità avrebbe dunque creato due categorie
distinte di occupati: quelli a tempo indeterminato, che conservano
diritti divenuti ormai privilegi, e i precari i quali, oltre a una
condizione lavorativa peggiore, scontano i costi connessi ai rischi di
impresa.
5. La risposta di Ocse e Banca mondiale
Negative anche le stime contenute nel World Development
Report pubblicato nel 2013 dalla Banca mondiale: «L’impatto globale
della maggiore flessibilità del lavoro è inferiore all'intensità che il
dibattito suggerirebbe. Le stime tendono in gran parte ad essere non
significative o modeste». Va oltre il World Economic Outlook 2016 nel
quale si legge che «le riforme che rendono più agevole il licenziamento
dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno mediamente effetti
statisticamente significativi sull'occupazione e sulle altre variabili
macroeconomiche». La conclusione cui arriva l'Ocse è che «la maggior
parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo
termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro suggerisce che
esse hanno un impatto nullo o marginalmente positivo sui livelli di
occupazione nel lungo periodo».
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