giovedì 22 febbraio 2018

Quali effetti ha realmente la flessibilità sul mercato del lavoro.

Comporta la nascita di un dualismo di mercato tra dipendenti garantiti e non. E può avere effetti depressivi sull'economia, influenzando il livello della domanda aggregata. Il rapporto del Senato.

Risultati immagini per operaiLa flessibilità del lavoro aumenta l'occupazione? È la tesi che gli italiani si sentono ripetere da circa vent'anni. Tuttavia, non esistono prove che ciò sia vero. Anzi, molti economisti ritengono che l'incertezza lavorativa si traduca in una maggiore propensione al risparmio, con effetti depressivi sul mercato. Sul punto ha voluto vederci chiaro l'Ufficio Valutazione Impatto del Senato che ha raccolto in un solo report le teorie economiche delle ultime due decadi.

1. Il bilanciamento dei regimi di flessibilità e di protezione del lavoro

Circa 20 anni fa, non solo il nostro Paese ma tutta Europa e buona parte degli Stati occidentali hanno intrapreso una lunga stagione di riforme che ha profondamente modificato la disciplina dei rapporti di lavoro nella speranza di bilanciare le esigenze delle imprese con la disponibilità economica. La scelta comune è stata rendere più precaria la posizione dei nuovi assunti per aumentare la base occupazionale. Dopo quasi due decadi, quali sono i risultati? L’occupazione è aumentata o diminuita? E la produttività? « L’Italia», si legge nel rapporto, «presenta indici di flessibilità mediamente analoghi a quelli francesi e tedeschi, con l'eccezione del regime di protezione per i lavori a tempo determinato: qui il nostro Paese si colloca in una posizione intermedia fra la Francia (significativamente più rigida) e la Germania (significativamente più flessibile). Rispetto alla Spagna, l'Italia fornisce maggiori tutele ai lavoratori nella disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi. Più debole, invece, è la protezione dei lavoratori temporanei».

2. Il rischio depressione della domanda globale

Sulla carta, la flessibilità del lavoro, comunemente mal vista, dovrebbe consistere nella possibilità di modificare le regole contrattuali così da adattarle meglio ai contesti locali, rapportandola, in particolare, alla capacità da parte dell'impresa di aumentare e ridurre il numero di lavoratori al suo interno a seconda del bisogno. La flessibilità, scriveva l'Ocse nel 2009, dovrebbe essere «tanto più elevata quanto minori sono i costi di assunzione e licenziamento e quanto meno rigida è la legislazione di protezione del lavoro». Il regime flessibile si contrappone a quello rigido, inteso soprattutto come maggiore difficoltà, per le imprese, a licenziare. Imbrigliare chi produce con lacci e lacciuoli pubblici ha effetti negativi sulla competitività. Il principale rovescio della medaglia della flessibilità riguarda però il rischio di depressione della domanda globale: lavoratori privi della sicurezza di uno stipendio fisso sono meno propensi al consumo e all'indebitamento, paralizzando l'economia. In più, viene sottolineato nel report, si concretizza il pericolo che la limitata stabilità lavorativa disincentivi tanto le imprese quanto i lavoratori a investire sulla formazione professionale.

3. Il ripensamento dell'Ocse già nel 1999

Ben prima che in Italia fosse promulgata la discussa legge Biagi (2003), che introdusse nuove tipologie contrattuali di lavoro a termine, l'Ocse aveva già iniziato a mutare orientamento in merito all'assunto che una maggiore flessibilizzazione potesse favorire l'ampliamento della base occupazionale. Nell'Employment Outlook del giugno 1999 evidenziava l'assenza di correlazioni tra i regimi di protezione lavoro (Rpl) e i tassi di occupazione. «Più recentemente», viene fatto notare nel report dell'Ufficio Valutazione Impatto del Senato, «i Rpl riducono la resilienza dell'occupazione agli shocks produttivi, il che contribuisce a spiegare la limitata elasticità dell'occupazione durante la recessione iniziata nel 2008». Insomma, non solo non sarebbe vero che la precarietà aumenta il numero dei lavoratori, ma avrebbe reso le singole economie più fragili ed esposte ai rigori della crisi.

4. L'impatto dei contratti a termine e i diritti diventati privilegi

Nel 2010, l'economista Kahn scriveva: «Non si è riscontrata alcuna evidenza circa il fatto che tali riforme abbiano aumentato l'occupazione. Sembrano piuttosto aver incoraggiato la sostituzione di lavoro permanente con lavoro temporaneo». Alle medesime conclusioni erano arrivati anche Bentolila, Aguirregabiria e Alonso-Borrego. La migliore fotografia è stata scattata, nel 2007, dagli economisti Güell e Petrongolo: «gli outsiders tendono a restare intrappolati nei lavori temporanei, mentre gli insiders usufruiscono di stabilità lavorativa, presidiata da solidi strumenti protettivi». Con la conseguenza, fatta notare dall'italiano Boeri nel 2011, che i costi di aggiustamento dello stock di lavoratori finiscono per scaricarsi sugli assunti a tempo determinato. La flessibilità avrebbe dunque creato due categorie distinte di occupati: quelli a tempo indeterminato, che conservano diritti divenuti ormai privilegi, e i precari i quali, oltre a una condizione lavorativa peggiore, scontano i costi connessi ai rischi di impresa.

5. La risposta di Ocse e Banca mondiale

Negative anche le stime contenute nel World Development Report pubblicato nel 2013 dalla Banca mondiale: «L’impatto globale della maggiore flessibilità del lavoro è inferiore all'intensità che il dibattito suggerirebbe. Le stime tendono in gran parte ad essere non significative o modeste». Va oltre il World Economic Outlook 2016 nel quale si legge che «le riforme che rendono più agevole il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno mediamente effetti statisticamente significativi sull'occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche». La conclusione cui arriva l'Ocse è che «la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro suggerisce che esse hanno un impatto nullo o marginalmente positivo sui livelli di occupazione nel lungo periodo».

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