domenica 25 febbraio 2018

La crisi vista dalle piccole imprese.

La crisi economica che si è venuta a generare in Italia ha colpito, come testimoniato anche dai dati ISTAT, gran parte della popolazione ed ha contribuito a precarizzare ancor di più il mondo del lavoro, dando origine ad un gioco al ribasso sul prezzo del lavoro ed alla cancellazione di quasi tutti i diritti dei lavoratori.
 

Nessuna categoria esclusa: il capitalismo, come una belva feroce e famelica, si è accanita su più vittime che, isolate e “spogliate” delle proprie protezioni, sono state facili prede del mostro!
Una categoria che sta soffrendo dell’attacco del capitale è quella dei commercianti e dei piccoli artigiani.
Ciò che la contraddistingue e che colpisce è che non c’è una benché minima forma di resistenza: vuoi perché per i diretti interessati è difficile far emergere il problema per questioni di “cultura del successo” tipica di questo settore che ti costringe a dare sempre una parvenza di felicità e soddisfazione (se non poi lamentarsi per frasi fatte senza entrare mai nello specifico del problema); vuoi perché purtroppo è spesso lasciata sola ed in balia degli eventi dalla politica.
Negli anni, con le tasche degli italiani sempre più a secco, parecchie attività commerciali o artigianiali hanno dovuto necessariamente abbassare per sempre le saracinesche.
Il problema, però, non risiede solo nella contrazione dei consumi. Da una parte si è assistito ad una continua e spregiudicata costruzione di grandi centri commerciali, fin dentro le città, in nome della risoluzione della crisi. Dall’altro ciò ha generato una concorrenza spietata “come neoliberismo comanda”, agevolata dalle politiche governative che hanno liberalizzato orari di lavoro delle attività commerciali. E il tutto è stato giustificato come un aiuto all’aumento dei consumi, come se fossero gli orari o i negozi a non dar possibilità agli italiani di generare consumi! A ciò si è unito un eccesso di pressione fiscale (se prendiamo in considerazione il calo dei consumi diventa difficile sostenere questo regime di tassazione).

Commercianti e artigiani sono ormai vittime di grandi multinazionali, di costruttori e della classe politica senza scrupoli che in combutta permettono la costruzione funzionale solo al loro profitto di grandi megastrutture, in barba a tutte le conseguenze compresi vincoli ambientali (vedi il prossimo “Maximall Pompei” costruito in uno spaccato di territorio che straborda di amianto, oppure “Leory Merlin” di Torre Annunziata costruito su dei reperti archeologici, perché il profitto può cancellare anche la cultura!).
Esse, oltre ad essere fonte di profitto per pochi ed impoverimento economico per tanti, sono anche un agglomerato che attraverso grosse campagne di marketing e i prezzi bassi, dovuti ad escamotage fiscali e produttivi, riescono ad attrarre gran parte delle persone che altrimenti avrebbero percorso le strade delle proprie città. Ormai in tutta Italia i centri storici si sono svuotati e sono stati abbandonati a loro stessi. Infatti, una delle “attrattive” che questi posti offrono è un parcheggio, magari gratuito, ma più o meno certo. Cosa che nei centri storici e nelle città latita. È divertente poi assistere a branchi di persone che percorrono chilometri, senza una meta. D’altra parte non si spostano di 100 metri, se non con l’auto, all’interno dei paesi. Ed è qui che bisognerebbe lavorare: far riscoprire alle persone il piacere di una camminata all’aperto piuttosto che in corridoi concatenati senza finestre sul mondo reale!
Allo stesso tempo la maggior parte dei profitti e degli investimenti (comprese le tassazioni) fatti dai “colossi del commercio” non esitano a varcare i confini nazionali alla velocità della luce. Infatti sono posti dove nessuno che non sia una multinazionale può permettersi di pensare di iniziare a lavorare all’interno come venditore di prodotti: producono merci sfruttando in altri paesi la manodopera a basso costo, ci imprimono sopra un marchio che nella società dei consumi conferisce uno status, importano qui vendendo con ricarichi altissimi sui prezzi che però restano altamente concorrenziali nel mercato e, in più, intercettano fondi pubblici alle imprese.  Insomma è un posto per una ristretta élite finanziaria che punta a prendersi tutto il potenziale economico di un territorio.  In sintesi un gruppo di persone che devastano e saccheggiano l’economia di una nazione al fine di arricchirsi in combutta con le autorità politiche che permettono questo scempio.
Un’altra enorme bugia che serve a far accettare alle persone la nascita di questi enormi obbrobri accanto casa è quella dello sviluppo lavorativo all’interno della struttura in favore del paese ospitante.
Nulla di più falso!

Se per lavoro intendiamo lavorare 7 giorni su 7 anche festivi con salario minimo allora si evince che i centri commerciali non sono altro che generatori di schiavitù, non di lavoro.
Insomma hanno un ruolo antieconomico e antisociale perché di fatto svuotano i territori, li inquinano, li depauperano e si riempiono di persone che lobotomizzano e bombardano a loro piacimento con pubblicità e flash di luci in ogni dove.
Per rilanciare l’economia dei paesi la sola soluzione è impedire la nascita di altri centri commerciali, ritornare ad un’economia basata sul territorio locale e sulle sue peculiarità come agricoltura e artigianato.
Regolamentare nuovamente orari di chiusura ed apertura delle attività commerciali con la reintroduzione del giorno infrasettimanale di chiusura e domenica festiva in base ai settori merceologi per ridare dignità e riposo alla vita dei soggetti che operano nel commercio, ai lavoratori e alle piccole imprese dove proprietari e dipendenti spesso coincidono e sono tutti sfruttati dal capitale.
Bisognerebbe gettare le basi per la creazione di un piano strategico che tenda ad assorbire buona parte dei lavoratori sfruttati dalle grandi multinazionali e, attraverso agevolazioni, dare loro la possibilità di poter scegliere di prendere possesso dei vari negozi sfitti all’interno dei centri storici e delle città. Fare in modo che quei luoghi figli del capitalismo più sfrenato siano sempre più isolati, far perdere loro fascino in favore delle città riportando all’interno di esse i consumi (e non il consumismo!).
Regolamentare le nuove attività commerciali che vorranno operare sul territorio inserendo dei vincoli affinché la stessa categoria merceologica non si ripeta numerose volte rispettando vincoli di metraggio inteso come distanza l’uno dall’altro e mettendo un tetto massimo per categoria in base al numero di abitanti di un comune.
Solo così si può iniziare a difendere una categoria di lavoratori che è ormai da troppo tempo abbandonata da tutte le parti perché troppo borghese per la sinistra e troppo proletaria per la destra. Una categoria di lavoratori che è stata costretta dai governi e dal capitalismo ad auto-sfruttarsi, lavorare sempre più giorni fino a completare la settimana intera di lavoro per provare a reggere la concorrenza con i grandi mostri del capitalismo per provare a riuscire a guadagnare qualcosa oltre le tasse da pagare, essendo certi di non aver alcun paracadute sociale.
E solo così si può provare a ricostruire un tessuto sociale che è ormai morto: non si è più abituati a camminare e percorrere i paesi, non si è più abituati a chiacchierare, si è sempre più soli emarginati ed incattiviti nei confronti di tutti con una certa propensione a vomitare odio verso il più debole, forse perché ci siamo tutti abituati ad essere soli, magari circondati da mille luci, musica e realtà mistificate che ti illudono di vivere un film, ma in realtà si è soli in mezzo al nulla; soli come tanti lavoratori del commercio ed artigiani si sentono in questa fase storica, nel silenzio assordante di tutti; soli così come ci vuole la belva, per attaccarci meglio.

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