Gentaglia
Da qualche giorno tiene banco la vicenda Embraco, la multinazionale del gruppo Whirlpool che ha deciso di spostare la produzione di compressori per frigoriferi in Slovacchia, e di licenziare così cinquecento lavoratori presso un suo stabilimento in provincia di Torino. Purtroppo è una storia come ne abbiamo sentite e ne sentiremo tante: sono decenni che le imprese aprono e chiudono impianti per risparmiare sul costo del lavoro, o per ottenere sconti sulle tasse, o ancora per accaparrarsi finanziamenti pubblici da intascare per poi andarsene comunque. La novità è nei toni usati da Carlo Calenda, molto diversi da quelli solitamente impiegati dai politici italiani. Il Ministro dello Sviluppo economico ha accusato la multinazionale di “totale irresponsabilità”, e i suoi dirigenti di essere “gentaglia” priva di pensare “al valore delle persone”.
Calenda aveva chiesto di sospendere i licenziamenti e avviare un periodo di cassa integrazione, mentre l’azienda si è detta tutt’al più disponibile a riassumere con contratto part time, azzerando così livelli salariali e anzianità. Le due soluzioni, dal punto di vista dei costi che Embraco deve sostenere, sono assimilabili, ma solo nel primo caso si salvano i diritti acquisiti dei lavoratori. Di qui la reazione di Calenda, uomo di Confindustria, per l’occasione trasformatosi in un battagliero sindacalista indignato per i comportamenti di una multinazionale sorda alle richieste dei lavoratori, sensibile solo agli umori dei mercati: non torna sui suoi passi, precisa la dirigenza, perché ha già presentato il suo piano di licenziamenti alla borsa e teme ripercussioni nel caso non si comporti di conseguenza.
Di qui anche la decisione di chiedere aiuto all’Unione europea, di cui la Slovacchia fa parte da una quindicina d’anni, avendo anche aderito da circa dieci alla Zona Euro. Calenda sostiene infatti che la Slovacchia ha attirato Embraco promettendole soldi, oltretutto non propri ma provenienti da Fondi strutturali europei. Insomma, anche le autorità di Bratislava sono gentaglia perché hanno offerto aiuti di Stato alla multinazionale: pratica vietata dal diritto europeo perché altera il funzionamento della concorrenza. Il che ispira altre dichiarazioni del Ministro improvvisatosi sindacalista, i cui strali si indirizzano ora contro i Paesi europei nei quali “un lavoratore è pagato la metà di quello italiano”.
Aggiustare la globalizzazione
Questa situazione ha del paradossale. Innanzi tutto perché la soluzione prospettata da Calenda è il rilancio sull’offerta fatta dal governo slovacco: l’Europa deve consentire al governo italiano di offrire anch’esso soldi pubblici a Embraco. Del resto la multinazionale ha già preso diversi milioni di Euro dallo Stato e dalla Regione Piemonte proprio per evitare il trasferimento della produzione in Slovacchia. Si tratterebbe quindi di ammettere una prassi consolidata, anche se evidentemente incapace di produrre risultati apprezzabili.
Questa volta, però, Calenda vuole fare le cose in grande. L’Europa dove addirittura acconsentire alla costituzione di un “Fondo per l’aggiustamento della globalizzazione” destinato a fronteggiare le transizioni industriali in “un’economia in transizione perenne”. E se i Trattati europei non lo consentono, occorre forzare la loro interpretazione: ciò che non si può fare per finanziare la scuola, le pensioni e la sanità, diventa improvvisamente possibile se si tratta di dare soldi alle imprese.
Si potrà così avviare un gioco al rialzo nel quale le imprese guadagnano sempre, perché incrementano comunque i loro guadagni: o impoverendo i lavoratori, o la fiscalità generale. Ovviamente se si tratta di imprese multinazionali, capaci di attivare il ricatto della delocalizzazione, mentre lo stesso non vale per i piccoli, destinati così a soccombere nella lotta contro i colossi dell’economia reale pilotati dai colossi della finanza.
Libera circolazione dei capitali
Ma non è solo questo il punto. L’Europa di Maastricht, ovvero l’Europa della moneta unica, si fonda sulla libera circolazione dei fattori produttivi, in particolare dei capitali. E ciò significa che gli Stati sono costretti a competere tra di loro per attirare investitori prospettando loro occasioni di lauti guadagni. Sono cioè costretti a favorire la precarizzazione e la svalutazione del lavoro per abbattere i salari, e inoltre a comprimere la pressione fiscale sulle imprese. Il che, va ricordato, costituisce una pratica molto utilizzata in Europa, dal momento che appartengono alla Zona Euro ben quattro tra i primi dieci paradisi fiscali del mondo: Cipro, Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi.
Non è sempre stato così. Per molto tempo si è ritenuto che le merci dovessero circolare liberamente, ma che lo stesso non valesse per i capitali, i quali dovevano al contrario essere sottoposti a controlli statuali più o meno penetranti. Proprio la mancanza di controlli sulla circolazione dei capitali era del resto considerata la causa della crisi del 1929, e in ultima analisi della più drammatica conseguenza di quella crisi: l’avvento del fascismo.
Si parla nel merito di compromesso di Bretton Woods, giacché venne definito durante la nota conferenza tenutasi sul finire del secondo conflitto mondiale. Fu allora che, prefigurando il futuro ordine economico internazionale, si volle sottolineare l’importanza di assicurare la libera circolazione delle merci, e nel contempo il controllo sulla circolazione dei capitali. Come affermato dal Presidente della Conferenza, il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Henry Morgenthau, in futuro nessuno avrebbe tollerato una disoccupazione prolungata o diffusa, motivo per cui occorreva rivitalizzare il commercio internazionale, fonte di pieno impiego. A tal fine si dovevano fornire capitali ai Paesi bisognosi, e occorreva farlo a interessi bassi: di qui l’istituzione della Banca mondiale. Sarebbe stato invece dannoso acconsentire alla libera circolazione dei capitali, e dunque condividere quanto è poi divenuto il fondamento dell’Europa di Maastricht: che, se i capitali si muovono senza controlli, finiscono naturalmente per beneficiare i Paesi più bisognosi. Tanto che nello Statuto del Fondo monetario internazionale si è voluto stabilire, con una formula ancora presente nell’articolato, che “gli Stati membri possono esercitare gli opportuni controlli per regolamentare i movimenti di capitali”.
È insomma l’Europa a costringere la Slovacchia a fare quello che ha fatto per attirare Embraco. Ed è l’Europa che costringe l’Italia a rilanciare, in un perverso gioco al ribasso sulla pelle dei lavoratori, comunque danneggiati sul piano salariale e su quello della sicurezza sociale. Se infatti la fiscalità generale verrà sempre più impiegata per fronteggiare le transizioni industriali, allora ci saranno sempre meno fondi per il welfare.
Redistribuire ricchezza dal basso verso l’alto
Si ricava così il nesso molto stretto tra libera circolazione dei capitali e impoverimento dei lavoratori, il che porta a vedere nell’Europa un dispositivo destinato a trasferire ricchezza dal basso vero l’alto. Questo non riguarda però solo le persone, bensì anche i territori: l’Europa non redistribuisce risorse neppure dalle sue aree più ricche a quelle più povere, bensì stimola il moto opposto.
Un contributo fondamentale in questo senso lo forniscono i Fondi strutturali per la coesione sociale, economica e territoriale. A partire dagli anni in cui prende avvio il percorso verso la moneta unica, gli anni in cui si realizza la libera circolazione dei capitali, la Commissione europea precisa che quei fondi non sono pensati per redistribuire risorse. Se così fosse la costruzione europea sarebbe una comunità politica fondata sulla solidarietà, ma proprio questo doveva essere invece impedito in modo chiaro e definitivo. Tanto che nel tempo si è affermato il principio per cui qualsiasi trasferimento di risorse ai Paesi membri deve essere condizionato al perseguimento di quanto viene definita una “sana governance economica”. I Paesi membri devono cioè rispettare i parametri di Maastricht, ovvero limitare debito e deficit affossando la spesa sociale e incentivando privatizzazioni e liberalizzazioni: solo a queste condizioni possono ricevere aiuti da Bruxelles. Il tutto secondo lo schema dell’assistenza finanziaria condizionata, quella destinata a ristrutturare i debiti pubblici: assistenza incapace di realizzare un simile obbiettivo, ma estremamente efficace in quanto strumento per imporre riforme strutturali nel disprezzo della partecipazione democratica.
Democrazia economica
Detto questo è evidente che i problemi posti da quanto Calenda chiama l’economia in transizione perenne ci sono, e soprattutto che devono essere affrontati dalla politica. Questa non può tuttavia limitarsi riscoprire le ragioni del nazionalismo economico. Non deve cioè intervenire solo per fiancheggiare le imprese nazionali nella competizione globale, magari forzando il divieto di fornire aiuti di Stato, ma per il resto assecondando il funzionamento del mercato concorrenziale.
Se la collettività destina risorse al sostegno dell’attività imprenditoriale, questa non può più svolgersi seguendo le sole regole dell’ordine economico, quelle per cui si possono socializzare le perdite ma non è consentito intaccare la privatizzazione dei profitti. Le regole dell’ordine politico impongono di incrociare il mercato con la democrazia, di far seguire all’esborso di denaro pubblico decisioni partecipate circa il suo utilizzo.
Non si tratta qui di sostituire al regime della proprietà privata quello della proprietà pubblica: entrambi sono espressione di logiche esclusive, quelle ricavate dal principio per cui il proprietario di un bene può disporne liberamente e senza limiti. Non importa se il bene è pubblico o privato, importa che sia amministrato in modo partecipato, tenendo conto dei punti di vista di chi viene a vario titolo riguardato dalle relative decisioni: il punto di vista dei lavoratori, ma anche quello dei consumatori e dei cittadini in genere.
Certo, non si tratta di una prospettiva a portata di mano. Sarebbe però una prospettiva sicuramente capace di raccogliere vasti consensi, se solo potesse essere in qualche modo formulata, dibattuta e poi sottoposta al vaglio della sovranità elettorale. Peccato però che tutto ciò non viene contemplato dalla costruzione europea, dai suoi tecnicismi e automatismi buoni forse ad amministrare l’esistente, ma non anche a metterlo in discussione. Peccato che in questa gabbia c’è forse spazio per il nazionalismo economico, per il conflitto tra Stati in lotta per la conquista dei mercati, ma non anche per coalizzare gli Stati contro i mercati e la loro insopportabile invadenza.
(23 febbraio 2018)
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