sabato 3 febbraio 2018

Canapa. C'è chi la fuma e c'è chi la indossa: il nuovo business è coltivare la canapa.

Aziende. Negozi in tutta Italia. Una filiera che produce alimenti, fibre, materiali per l'edilizia. E soprattutto cannabis light. Le nuove norme hanno lanciato un’industria: sono già più di mille le imprese agricole coinvolte. C’è chi ricava le foglie per il mojito al posto della menta. Chi i mattoni per fare case. E chi ricicla combustibile per riscaldamento.

L'Espresso Emanuele Coen

C'è chi la fuma e c'è chi la indossa: il nuovo business è coltivare la canapa 
Oltre 350 negozi da Milano a Palermo aperti in soli otto mesi, per un giro d’affari potenziale stimato in più di 40 milioni di euro. È boom per la cannabis light, le infiorescenze di canapa a basso contenuto di Thc. Perfettamente legale perché contiene un principio attivo non superiore allo 0,2 per cento, che non ha effetti psicotropi, anche se non potrebbe essere fumata, perché non c’è la destinazione d’uso.

La nuova legge sulla coltivazione della canapa, in vigore già da un anno, non menziona i fiori della pianta, dunque non ne vieta esplicitamente la commercializzazione. Una lacuna che ha spalancato un mercato rigoglioso anche se fragile, zona grigia di conquista per scaltri imprenditori. «Ogni giorno veniamo contattati da quaranta-cinquanta persone che vogliono diventare coltivatori. È un’onda inarrestabile», dice Luca Marola, attivista antiproibizionista e cofondatore di EasyJoint, sede a Parma e laboratorio a Jesi, vicino ad Ancona, uno degli operatori italiani più dinamici. Da maggio scorso hanno venduto più di 15 tonnellate di erba legale - in confezioni da 8 grammi a 17 euro con fiori e semi, oppure da 5 grammi a 29 euro senza semi - con un centinaio di aziende agricole che coltivano canapa per la ditta. «Nei prossimi mesi apriremo 120 punti vendita EasyJoint in franchising in tutta Italia. Con la stessa filosofia: segnalare l’incongruenza della legge e far crescere il valore commerciale della filiera della canapa, anche quella industriale».


La marijuana legale è infatti solo uno dei prodotti della canapa. Dalla pianta si ottengono anche la fibra e il canapulo, residuo legnoso dello stelo, materie prime con cui si fa di tutto: tessuti, eco-mattoni isolanti per costruire case, olio (dalle proprietà analgesiche e antinfiammatorie), semi, fiori per tisane, farina, bioplastica, carta, medicinali, cosmetici. Gli operatori si danno appuntamento a Roma per Canapa Mundi, fiera internazionale della canapa (16-18 febbraio al PalaCavicchi), che quest’anno punta soprattutto sull’alimentare: vino e gelati, ma anche specialità siciliane come arancine e cannoli a base di marijuana.

A Crispiano, trenta chilometri a nord di Taranto, si trova l’unico impianto di trasformazione della paglia di canapa nel Mezzogiorno, uno dei due attivi nell’intera Italia (l’altro sta a Carmagnola, vicino a Torino). La titolare, Rachele Invernizzi, per gli addetti ai lavori “Lady Canapa”, è la signora della canapa industriale. Arrivata in Puglia dopo vent’anni trascorsi a Milano, dove lavorava in una casa di produzione di spot pubblicitari, nel 2013 Invernizzi apre South Hemp Tecno e l’anno successivo la sede operativa. «È tutto da inventare, in un certo senso siamo dei pionieri. Intorno a me c’è gente con un’energia straordinaria; la canapa industriale è una grande opportunità di lavoro per i giovani, per l’agricoltura e per l’intera industria. E poi è assolutamente organica e sostenibile», dice l’imprenditrice, che non si risparmia: vicepresidente nazionale di Federcanapa, siede nel direttivo dell’European Industrial Hemp Association (Eiha), procura agli agricoltori semi certificati per le loro piantagioni, va a trovarli, li accompagna nelle pratiche agricole, affronta la diffidenza dei clienti e del pubblico.

L’idea della canapa industriale non è nuova: fino agli anni Quaranta l’Italia, con i suoi 100 mila ettari coltivati, era il secondo produttore al mondo dietro all’Unione Sovietica. Poi nei Cinquanta tutto è cambiato: con il boom economico sono arrivate le fibre sintetiche derivate dal petrolio e addio ai campi. Adesso la canapa sta riprendendo quota, con la nuova legge che disciplina la libera coltivazione. Secondo Assocanapa, in Italia ci sono 1.300 ettari coltivati - soprattutto in Piemonte, Toscana, Emilia, Lombardia, Veneto e Calabria - con almeno mille aziende agricole coinvolte. La nuova legge introduce una serie di novità: anzitutto non è più necessaria alcuna autorizzazione o comunicazione alle locali forze dell’ordine per la semina di varietà di canapa certificate con contenuto di Thc massimo dello 0,2 per cento.

La percentuale di Thc nelle piante analizzate, inoltre, può oscillare tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, e gli eventuali controlli vengono eseguiti da un soggetto unico, sempre in presenza del coltivatore. L’impianto di Invernizzi, ad esempio, riceve la materia prima dai contadini di molte regioni del Sud, tra cui Basilicata, Calabria, Campania, ma soprattutto Puglia, uno dei territori più coinvolti: la filiera conta più di 230 aziende, con oltre 400 ettari coltivati. Nello stabilimento di Crispiano sono state lavorate mille tonnellate di fibra nel 2017, ma l’obiettivo è far crescere i volumi di quattro volte.

Il business conta, ma non è tutto. Per l’associazione Casa delle agriculture Tullia e Gino Girolomoni, la canapa è un’occasione per rilanciare un territorio in affanno, ma anche un modo per rafforzare l’identità della comunità locale: bambini, adulti e anziani si ritrovano per la festa della semina, in primavera, e in altre occasioni. A Castiglione d’Otranto, nel Salento, i ragazzi dell’associazione recuperano terreni abbandonati e stipulano con i proprietari contratti di comodato d’uso gratuito. Coltivano su 15 ettari cereali antichi, grano Senatore Cappelli, diverse varietà autoctone di pomodori in via di estinzione, e, su un campo di soli due ettari, canapa industriale: nell’anno appena concluso hanno prodotto 40 quintali.

«Siamo orgogliosi, facciamo tutto questo per amore della nostra terra, non in senso nostalgico ma di rivalsa e di lotta», dice Donato Nuzzo, 35 anni, uno dei fondatori dell’associazione. Come altri soci, qualche anno fa Nuzzo è tornato a casa per fare il contadino dopo la laurea, nel suo caso in antropologia culturale al Dams di Bologna. È l’avanguardia di una nuova generazione di italiani che ha scelto di lavorare la terra. «La nostra agricoltura si ispira ai princìpi della biodiversità, riscopriamo le varietà locali, fuori dalla logica delle royalty pagate ai produttori di sementi. E la canapa industriale ha mille applicazioni, è un po’ come un maiale vegetale: non si butta via nulla. Per esempio, noi usiamo le foglie di canapa per il mojito, al posto della menta», scherza Nuzzo.

C’è anche chi con la canapa, mescolata con calce e acqua, costruisce case. Il biocomposto, infatti, regola l’umidità, d’inverno ripara dal freddo e d’estate mantiene fresco l’ambiente. Ha così deciso di riconvertire la sua azienda Emilio Sanapo, imprenditore edile di 41 anni. Ora realizza edifici ecosostenibili, a cominciare dal suo a Supersano, non lontano da Castiglione d’Otranto: due piani, 140 metri quadrati, una casa a chilometro zero fatta di canapa salentina, dove vive con la moglie. «I muri in calcecanapa costano qualcosa in più rispetto a quelli convenzionali, ma ne vale la pena: è un isolante talmente efficace che faccio a meno dell’impianto di riscaldamento e di raffreddamento», spiega l’imprenditore. Molti turisti tedeschi, svizzeri e del Nord Italia, che hanno comprato appartamenti e masserie in zona, lo interpellano per ristrutturarli con materiali naturali. «Non mi sono inventato nulla: un tempo qui le case venivano fatte in pietra leccese, perfetto isolante; poi è arrivato il cemento», riflette Sanapo.

E rimpiange i tempi andati anche Vincenzo Fornaro, 47 anni, che insieme al fratello Vittorio possiede Masseria Carmine, a due chilometri dalle ciminiere dell’Ilva di Taranto. Allevatori da tre generazioni, nove anni fa i Fornaro furono costretti ad abbattere tutti i loro ovini, 600 tra pecore e capre, perché contaminati dalla diossina: nel raggio di venti chilometri dal sito industriale è tuttora in vigore il divieto di pascolo e coltivazione. Tragedia nella tragedia che costringe la famiglia Fornaro, così come tante altre nella zona, a reinventarsi un futuro. Nasce così la “semina della speranza” avviata nel 2016, quando i titolari della masseria piantano 90 chili di semi di canapa nei loro terreni, insieme ai concittadini e ai fedeli di quattro parrocchie della zona. Poi spediscono un campione in laboratorio per verificare l’eventuale tossicità. L’esame non evidenzia alcuna traccia di diossina. «Abbiamo tirato un sospiro di sollievo. In primavera semineremo tra i dieci e i quindici ettari di terreno», prosegue l’imprenditore-contadino. Il sogno è convertire i terreni alla coltivazione di canapa, per decontaminare i campi, magari anche per uso tessile. E creare una cintura verde intorno all’Ilva. «Sono molto fiducioso», conclude Fornaro: «Secondo me la riconversione dell’agricoltura in chiave ecosostenibile sarà il futuro di questa terra».

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