mercoledì 3 gennaio 2018

Libro. Quale didattica per la Shoah?

Il libro di Carlo Scognamiglio ”Insegnare la catastrofe” è un grande contributo di sistematizzazione per tutti coloro che si occupano dello sterminio degli ebrei europei come oggetto di studio. È uno strumento prezioso per gli insegnanti che intendono trattarne il tema con lo stesso obiettivo dell’autore: far riflettere gli alunni ed accompagnarli nella ricerca di valori umani universali.




micromega Liana Novelli

L’autore ha avuto un’esperienza didattica fallimentare rispetto a questo fine. In una scuola secondaria romana gli alunni, commossi fino alle lacrime di fronte alla storia della Shoah, portati in un secondo tempo a parlare della situazione attuale del loro quartiere, finiscono col dire che i nomadi dovrebbero essere “bruciati vivi”.
Qual’è allora il cammino da percorrere perché la scuola sia quello che deve essere, un luogo in cui la conoscenza e l’interpretazione dei fatti conduca ad una maturazione etica?
Il percorso delineato dall’autore è necessariamente complesso e deve essere affrontato da una molteplicità di prospettive, che cercherò di riassumere.

Sotto il profilo storiografico egli descrive quella che è ormai l’ipotesi prevalente: l’eliminazione fisica degli ebrei avviene a conclusione di un processo, che era iniziato con il piano del loro totale allontanamento dalla Germania, poi della deportazione in massa –ipotesi Madagascar -, infine, stante l’enorme numero di ebrei razziati dai paesi occupati, convertito nella “soluzione finale” decisa nel 1941. Della decretata soluzione finale approfittarono gli assassini a tavolino come Eichmann e Odilo Globocnik, che si proposero e agirono come organizzatori, coadiuvati da un esercito di collaboratori e agenti fisici dello sterminio. Scognamiglio esamina il lato psicosociale, che può spiegare il “carnefice in noi”, rimandando agli esperimenti di Zimbardo e Milgram.

Uno di questi esperimenti, basato su studenti divisi in gruppi di prigionieri e secondini, doveva durare due settimane, ma fu troncato dopo sei giorni perché l’immedesimazione dei secondini nel ruolo punitivo era arrivata a minacciare la stessa vita dei prigionieri. Essi vengono spogliati di ogni valore umano, ridotti a non persone: non hanno nome, né possono essere distinti tra di loro per come vestono. Vengono percepiti come nocivi e pericolosi, dunque da distruggere- (nei campi di concentramento vennero eliminati come insetti, una sorta di misura igienica). Dall’altra parte anche le guardie sono anonime, ma l’anonimato le protegge e le deresponsabilizza. L’azione degli agenti della Shoah dipende dagli ordini di istituzioni autorevoli di “esperti”, medici, personalità politiche, scienziati. L’individuo fa sue anche opinioni che ritiene false, se la maggioranza le avvalla: allora la deresponsabilizzazione raggiunge livelli altissimi. Già Le Bon e Freud avevano trattato questo fenomeno nella psicologia delle masse, che si identificano in un capo e gli demandano ogni decisionalità. Tra i collaboratori dello sterminio ci sono anche italiani e alle responsabilità italiane l’autore dedica un intero capitolo. Primo responsabile è il governo fascista, cui la campagna razziale offriva l’opportunità di affermare la superiore “razza italiana”, inventata per l’occasione dagli scienziati della “Difesa della Razza”, onde evitare la mescolanza con gli africani delle colonie.

Scognamiglio passa a smontare il mito del buon italiano: il buon italiano certamente ci fu e salvò i due terzi degli ebrei italiani, ma questo non giustifica l’assenza di proteste per le leggi del’38 (salvo rarissime eccezioni, la più nota è Benedetto Croce), né la generale disponibilità ad occupare i posti statali e privati da cui erano stati scacciati gli ebrei, ad approfittare delle aste dei beni a loro confiscati, ad occupare gli alloggi divenuti liberi e così via. Quanti hanno denunciato gli ebrei per incassare la taglia di 5.000 lire- 11.000 per quelli illustri, il che spiega la grande percentuale di rabbini deportati- , quante sedicenti guide li hanno venduti ai repubblichini invece di portarli oltre il confine svizzero, questo è noto a chi ha letto gli studi di Mimmo Franzinelli e Osti Guerrazzi ed è quanto mai opportuno che i programmi scolastici si occupino di questo infausto capitolo della nostra storia.

Alla favola degli italiani “brava gente” credettero per primi gli alleati, tanto è vero che non ritennero necessarie in Italia le misure adottate in Germania allo scopo di rieducarne la popolazione. Ad onta del grande consenso che ebbe il fascismo- anche tra gli ebrei- nessuno mise in dubbio la vocazione democratica degli italiani, certamente a seguito del movimento di liberazione, cui peraltro aderì una minoranza, importantissima per l'immagine del paese, ma che coinvolse al massimo il 10% della popolazione. Anche la ricostituita comunità ebraica contribuì alla creazione del mito e la brigata ebraica lo trasmise in Israele, dove è tuttora opinione comune, come ci riferisce Scognamiglio, che dedica un capitolo alla didattica della Shoah in Israele. Le vittime italiane sopravvissute, desiderose di essere reintegrate nella comunità nazionale, si guardarono bene dal lamentarsi e ringraziarono chi li aveva aiutati.

L’autore prende in esame il ruolo delle vittime, come fattore coadiuvante nella loro stessa disgrazia: esse tendono a negare gli eventi premonitori della discriminazione e la loro molto prevedibile pericolosità, pur di non abbandonare la visione del mondo in cui sono cresciute. Si lasciano letteralmente portare al macello, in alcuni casi assumendo persino il sistema di valutazione dei loro carnefici. L’autore cita il caso dell’ebreo cecoslovacco Mannheimer, che a distanza di molti anni racconta come la sua famiglia, quasi interamente sterminata, rifiuta di credere fin sulla soglia delle camere a gas. In effetti la Shoah è al di fuori di quanto è umanamente pensabile: i carcerieri stessi dicono alle loro vittime che, se anche ne potessero dare testimonianza, non sarebbero creduti. La sua unicità non si esaurisce però solo in questo, ma piuttosto nel modo con cui avviene, e l’autore sottolinea la burocratizzazione del sistema concentrazionario, la divisione del lavoro che vi regna. Queste caratteristiche della modernità persistono nel nostro mondo, dobbiamo dunque registrarne la portata. I nostri allievi devono dedurne che questo passato potrebbe ripetersi, dato che le condizioni in cui è avvenuto sono tuttora presenti.

La Shoah è unica, anche se vi sono stati e continuano ad esservi altri genocidi: paragonarli tra di loro equivarrebbe a ridimensionarne la portata, ad una rassegnazione al male, che è il fallimento di ogni pedagogia.
Inoltre rinunceremmo a ricercare le cause specifiche degli eventi storici, tema centrale dell’insegnamento. Quali sono le origini dell’antisemitismo? Religiose? Culturali? Cerchiamo un capro espiatorio su cui proiettare le nostre disgrazie? Ci fa paura chi è diverso da noi? Una storia dell’antisemitismo è irrinunciabile all’interno di una didattica, che insegni a riconoscere gli atteggiamenti ed i pensieri che conducono alla discriminazione. In questa ottica si può indagare il fenomeno del bullismo- che l’autore definisce creazione del subalterno-, prima ancora che si manifesti umiliando soggetti considerati inferiori.

Nell’affrontare il tema della Shoah si devono sottolineare i diversi gradi dei fenomeni di intolleranza, discriminazione e persecuzione esaminati nei vari paesi nel corso del tempo, dato che l’alunno deve imparare a differenziare il peso degli eventi storici, deve per esempio accorgersi di come l’antisemitismo italiano sia stato artificialmente costruito e come anche il diffuso antisemitismo tedesco non abbia mai toccato i livelli dell’Est europeo. Deve inoltre imparare a vagliare le testimonianze, della cui rilevanza dubitano gli stessi sopravvissuti, proprio perché in qualche modo privilegiati o capaci di pensare a strategie di sopravvivenza (v. Primo Levi “I sommersi e i salvati”) e a valutarle secondo il loro peso.

Questo libro ci ricorda sostanzialmente che il compito dell’insegnante è complesso e che la capacità di pensare la complessità deve essere trasmessa nella scuola e in ogni luogo. Un sentito ringraziamento all’autore, che, sulla base di una vastissima e profonda conoscenza del tema, ce ne ha dato un saggio.

(2 gennaio 2018)

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