Oggi, 31 gennaio è il compleanno di Ahed Tamimi,
compie 17 anni. Era prevista la prima udienza del suo processo per aver
scacciato da casa sua due soldati israeliani, ma è stata rimandata al 6
febbraio. In tutto il mondo stanno continuando le proteste e la
richiesta del suo rilascio. Riceviamo e pubblichiamo questo contributo
personale
Non ricordo come ho festeggiato i miei diciassette anni. È passato troppo tempo da quel compleanno, non ce la faccio a ricostruire quel giorno. Ricordo il compleanno dei diciotto, in spiaggia con amici, ma dei diciassette niente, nessuna memoria. Peccato.
Oggi Ahed Tamimi compie diciassette anni, e avrebbe dovuto “festeggiarli” in un tribunale militare israeliano per il primo giorno del suo processo, ma l’udienza è saltata e rimandata al 6 febbraio. Nel frattempo rimarrà in carcere perché il giudice si è rifiutato di liberarla su cauzione. Ahed, che con coraggio e determinazione lo scorso dicembre ha spinto fuori dal cortile di casa sua due soldati, poco dopo che altri soldati avevano gravemente ferito suo cugino, rischia una condanna a 10 anni di carcere.
Quando vedo il volto di Ahed su internet non smetto di interrogarmi, di stupirmi per la lucidità, la determinazione, il coraggio. So che non è un’eroina, né vuole esserlo. Immagino che quando sarà sola in prigione starà male, che avrà anche paura, ma non riesco, quando la vedo, a non pensare a come dovevo essere io alla sua età, perso nelle tipiche difficoltà e incertezze adolescenziali.
Ho passato almeno la prima metà dei miei undici anni di militanza tra qui e la Palestina, confrontandomi con miei coetanei di lì, sia palestinesi che attivisti radical israeliani, e chiedendomi tanti perché. Perché loro e non io, perché io potessi scegliere e perché loro no, perché lì tutto avvenisse quel modo così assoluto e totalizzante, perché non potevo cambiare le cose ed essere con loro, o meglio ancora essere loro.
Attorno ai trent’anni, per fortuna, ho capito che dovevo smettere di farmi quelle domande e dovevo trasformare invece l’identificazione empatica totalizzante nei compagni palestinesi e israeliani in forza assertiva per me e per le lotte politiche collettive che portavo avanti qui. Inoltre ho compreso in modo evidente quanto sia necessario evitare non solo il cinismo, ma pure ogni paternalismo buonista («guarda come sono fortunato io, loro invece, poveretti…»), così come sono da evitare sterili sensi di colpa. Ho iniziato invece a concepire le relazioni con i compagni di lì come scambi un po’ più orizzontali, apprezzando, ad esempio, le molte risorse sociali che loro avevano, e che a me a volte mancavano. Soprattutto dovevo accettare la distanza strutturale tra me e loro e trasformarla in azione per trasformare la realtà, contro l’occupazione israeliana ma anche contro ogni occupazione delle nostre vite.
Bello a parole, nei fatti difficile da costruire, perché si scontra con le difficoltà del quotidiano, personali e politiche. Eppure di ritorno da ogni permanenza giù avevo stimoli, pensieri, emozioni che mi scuotevano e che mi ricordavano che la distanza tra me e loro esisteva per essere colmata, o per meglio dire, per essere trasformata in qualcosa altro, di grande e bello, quando fosse stato possibile.
Il volto di Ahed oggi mi interroga, quella foto che ritorna spesso nella mia thread line di twitter, quel suo sorriso di grinta mentre si guarda alle spalle, sembra quasi che mi guardi e mi dica scherzosamente «Ehi, non mollare mica sai?! Non puoi permettertelo! Guarda dove sono finita io!»
Ricordo l’ultima volta che sono stato a casa di Ahed, nell’ottobre 2014. Nariman, sua madre, anche lei in carcere da dicembre, aveva preparato un spettacolare fattoush con pane olio e zaa’ter, era una sorta di brunch prima di andare assieme al corteo del venerdì. Ahed era in camera sua, poi sarebbe venuta al corteo assieme a noi.
Non sapevo che sarebbe stato il mio ultimo viaggio lì prima che un “denied entry” stampato sul mio passaporto mi allontanasse per sempre da quei luoghi, chissà cosa avrei detto, chissà cosa avrei fatto se l’avessi saputo.
E ora posso solo vedere da qui cosa accade in quelle terre, posso solo provare a trasformare la distanza, senza i momenti stupendi in cui, lì con loro, riuscivo a cancellarla del tutto: le cene assieme, i cortei, le chiacchiere infinite tra tè e narghilè, in un oliveto o sullo sfondo di montagne sempre color rosso fuoco al tramonto.
Ora mi sento impotente, mi faccio travolgere dalla nostalgia, e vorrei essere lì, anche solo per un giorno. Vorrei essere a Nabi Saleh e dire a suo padre, Bassem, che il volto di Ahed dà speranza, a me e a tante donne e uomini in tutto il mondo che si ribellano ogni giorno, che non accettano questo schifo di ingiustizie, soprusi, violenze subite in nome del profitto, del potere e del capitale.
Vorrei dire a Bassem che Ahed ci insegna ad alzare la testa e a ribellarci, perché abbiamo tutti un soldato israeliano che entra nei nostri cortili ogni mattina, è solo più silenzioso e più invisibile del suo. Noi ormai ci siamo abituati, facciamo finta di niente, lo lasciamo stare e magari, per quieto vivere, gli offriamo anche un caffè.
Ahed si è ribellata e ha reagito, dovremmo ricordarcelo e riuscire a fare altrettanto, singolarmente e collettivamente, ed è l’unico modo per dare un senso alla parola “resistere”.
Credo che quando Ahed avrà la mia età, al contrario di me, si ricorderà il suo diciassettesimo compleanno. Spero potrà farlo sorridendo, orgogliosa di sé, della sua dignità, di quello che con la sua umanità sta trasmettendo a tutte e tutti noi.
Buon Compleanno Ahed.
#FreeAhed
#FreeAhedTamim
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