giovedì 25 gennaio 2018

Se la metà dei giovani si astiene è perché ha ragione.


Uno spettro si aggirava per l'Europa. Poi non più.
La costruzione post-ideologica ha funzionato come la goccia cinese: ha scavato un buco profondo nelle democrazie occidentali.

L'effetto desiderato era quello di "svecchiare" un panorama politico carico di rimandi novecenteschi ritenuti ormai desueti per applicare un nuovo sistema economico. Uno che – auspicabilmente per chi lo ha sostenuto – non avesse la controindicazione del controllo democratico e sociale. Invece non aver sostituito nulla alla fine delle ideologie ha sortito come unico effetto quello di rivitalizzarne due: il partito dell'ideologia inconsapevole e quello del tentativo della riscoperta.
Così, in un panorama nel quale sembra archiviata la distinzione destra/sinistra e trionfano l'arancione, il fuxia, il verde, l'amaranto, colori della politica dei frammenti che ha preso il posto di quella dei sistemi di valori, metà dei giovani italiani sono orientati ad astenersi. 
Di un dibattito che non si interessa di loro se non per strumentalizzarli, d'altra parte, cosa se ne dovrebbero fare?
Di una classe dirigente che pensa ancora il mondo del lavoro in termini di imprenditori e dipendenti, cosa se ne fa una generazione che sperimenta l'autosfruttamento? 
Di una classe dirigente che pensa ancora che ci sia da scegliere fra il lavoro nell'industria pesante e la tutela dell'ambiente, che cosa se ne fa una generazione che si impegna a costruire dalle università e dai centri di ricerca quell'avanzamento tecnologico che permette la diminuzione dell'orario di lavoro a parità di salario e pure l'ammodernamento e la riconversione ecologica degli impianti? 
Di una classe dirigente che pensa a come mantenere la Riforma Fornero o a come riformarla ma senza dare fastidio a nessuno, cosa se ne fa una generazione che per anni e anni lavora senza versare contributi e contemporaneamente vive delle pensioni che già ci sono?

Di una classe dirigente che concepisce la politica solo come disintermediazione o, al versante opposto, solo come centralismo democratico di fedele seguito a coloro che stanno al vertice, cosa se ne fa una generazione che mai come oggi è social, in cerca di condivisione e costruzione di reti, ma alla quale non viene insegnata l'alfabetizzazione politica necessaria a organizzarsi e autorappresentarsi?
Di una classe dirigente che ha ceduto progressivamente tutto il suo potere alle multinazionali, all'economia e alla finanza, cosa se ne fa una generazione che per i colossi della logistica ci lavora e che capisce che sono Jeff Bezos e Mark Zuckerberg i veri decisori? 
Che cosa se ne potranno mai fare i giovani di chi li considera a turno dei "bamboccioni", dei "choosy", degli "sdraiati", che li considera cavie per imparare, grazie alle nuove regole europee, "la durezza del vivere" (Padoa Schioppa, 2003), ma poi chiede loro di fare di più e di meglio di ciò che è nelle loro possibilità? Si potrebbe continuare a lungo.
Come hanno dimostrato il 4 dicembre 2016, i giovani sanno che anche la rottamazione, come tanti gattopardeschi rinnovamenti venuti prima, era uno specchietto per allodole. Arriverà anche lo smascheramento della democrazia come click online. Aumentare a dismisura il livello di conflitto politico su questioni di forma più che di merito, etichettare tutto ciò che esce dagli schemi delle élites come "populismo", ha prodotto l'effetto desiderato di una fitta nebulosa. Ma anche quello indesiderato di lasciar intravedere, nella foschia, le cose davvero importanti.
Nel trionfo della post-modernità, a circa dieci anni dalla crisi, quando l'unica ideologia lecita è rimasta la "stabilità" così che un membro della Commissione Europea può dire impunemente che "il voto italiano è un rischio politico", ciò che è rimasto ai giovani per orientarsi nella cosa pubblica sono le grandi idee più che le grandi coalizioni: socialismo, capitalismo, comunismo, fascismo persino. Non stupisce che su La Stampa Letizia Tortello scriva un pezzo intitolato "Per i giovani inglesi il capitalismo è più minaccioso del comunismo".
Gli "ismi" sono più rassicuranti dei leader costruiti in provetta, sono più eloquenti di una classe dirigente maggiormente interessata a parlarsi addosso che non agli elettori. Gli "ismi" condizionavano il mondo, erano potenti; erano cioè tutto il contrario degli slogan dell'impotenza che usano i nostri politici, consci di aver sostenuto per troppo tempo che "non c'è alternativa" o che "ce lo chiede l'Europa" e cose del genere, per smentirsi proprio ora sperando di cavarsela. Gli "ismi" suppliscono al vuoto della politica contemporanea offrendo un orizzonte, una bibliografia per i più colti, una serie di risultati delle ricerche su Google per i più desiderosi di immediatezza.
In un panorama politico pudico di "ismi", in cui ciascuno sembra vergognarsi del suo, tocca ai giovani denunciarne la scomparsa e ricostruirne di nuovi. Sono loro ad avere il potere di inserire un terzo elemento in un sistema binario: fra il neoliberismo progressista e il populismo reazionario (definizione di Nancy Fraser) inseriscono l'ecosocialismo, fra l'austerità mortificante e l'eccesso per pochi inseriscono la ricerca del benessere diffuso, fra lo status quo borghese e la guerra a tutto ciò che è società inseriscono la socializzazione delle paure e dei bisogni, fra il modello della competizione sfrenata di tutti contro tutti e quello dell'omologazione inseriscono la ricerca del sé che passa attraverso l'incontro con gli altri. Fra la destra e la sinistra inseriscono le grandi necessità: fermare il cambiamento climatico, fermare le guerre, fermare l'impoverimento. In alcuni casi ci stanno riuscendo.
Non è un caso che la ricerca fatta sui giovani che preferiscono il comunismo al capitalismo sia stata elaborata da una società di sondaggi con sede in Inghilterra. La spiegazione che i giovani sarebbero tradizionalmente più "estremisti" e quindi "di sinistra" non regge più: la sinistra socialdemocratica centrista europea, in più di un'occasione, ha dimostrato di possedere il suo zoccolo duro fra gli over 60 non certo fra gli under30. Oltre ai numeri del voto giovanile strappato (per lo più) all'astensione dei casi di France Insoumise, Podemos e altri, il caso inglese è emblematico. Il Labour Party di Jeremy Corbyn ha raccolto nel 2017 più del 60% del consenso giovanile. Come abbia fatto lo ha detto lui stesso, dal palco del Festival musicale di Glastonbury lo scorso giugno, davanti a 150mila di quei ragazzi:
"La politica riguarda le vite di tutti noi, e la meravigliosa campagna nella quale sono stato impegnato, [...] ha riportato le persone in politica perché credevano che ci fosse qualcosa in palio per loro. Ma ciò che è stato anche più motivante è stato il numero di giovani che si sono impegnati per la prima volta. Perché erano stanchi di essere denigrati, stanchi di sentirsi dire che non contano".
Corbyn ha capito quello che le classi dirigenti italiane non afferrano o fingono di non afferrare: la nostra generazione non ha bisogno solo di essere convinta a votare questo o quello, ma di essere persuasa. Qui si trova la differenza anche con i qualunquisti: questi ultimi non vogliono convincere nessuno, mentre oggi più che mai è necessario farlo. Un sistema politico che non offre ai suoi giovani nessuna battaglia che valga la pena combattere davvero, è un sistema politico morto o molto prossimo al decesso. Se non altro perché l'effetto sperato, quello di sopire i conflitti e condannare all'accettazione, alla rassegnazione e alla solitaria frustrazione silente, sarà sostituito dall'effetto temuto: quello dello scoppio di passioni e pulsioni per altre vie.
Sono passati 40 anni dal '68, 29 anni dal crollo del Muro di Berlino e mancano poco più di 40 giorni al voto. Della Guerra Fredda, del '94, di Nanni Moretti e di Sigonella, di Lenin e di Reagan, potremmo chiederci, come nel celebre ritornello di Gabry Ponte, "che ne sanno i Duemila?": quest'anno, vota

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