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Rossana Cillo,
assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di Ca’ Foscari
di Venezia, ha curato il volume Nuove
frontiere della precarietà del lavoro. Stage, tirocini e lavoro degli studenti
universitari, pubblicato nella collana «Società e trasformazioni sociali» per
Edizioni Ca’ Foscari. La raccolta (scaricabile gratuitamente qui)
ospita undici contributi volti a fornire un quadro quanto più completo del “fenomeno
stage”, delineandone i profili storici, sociali e politico-giuridici. Un tema d’interesse
per il Collettivo universitario Li.S.C., che già in occasione del Career Day
aveva contestato le politiche cafoscarine in materia di placement. L’ateneo
veneziano prevede infatti uno stage curricolare obbligatorio (150 ore) e a tal
proposito ha stipulato una serie di convenzioni con enti e aziende in tutto il
mondo, che inseriscono la loro “proposta di contratto” direttamente sul sito www.unive.it.
La maggior parte di queste non
prevedono alcuna retribuzione, né un rimborso spese. Li.S.C. ha
ospitato, in un incontro pubblico svoltosi lo scorso 13 dicembre, la
dottoressa Cillo e discusso con lei di alcune implicazioni economiche e sociali
del fenomeno stagistico, da cui sono scaturite le riflessioni che seguono.
Nel 2011 un saggio di Guy
Standing[1] analizzava la nascita di una nuova
classe sociale, il precariato, non più vincolata a un regime
lavorativo codificato e scandito dal tempo di produzione, come invece il
proletariato. Una conclusione ben diversa dalle premesse di questo libro, che
si apre puntualizzando come «nel contesto dell’economia di mercato
capitalistica, la precarietà del lavoro è un dato strutturale,
costitutivo dei rapporti di lavoro». Pure ammettendo, come vorrebbe Standing,
una relativa stabilità nella regolamentazione delle relazioni professionali - o
di sfruttamento[2] -,
occorre tenere a mente i limiti temporali entro cui questa va ascritta, che non
consentono di superare il secolo. Prima che l’ossatura garantista dei vari
statuti ne mimetizzasse la forma, la coppia concettuale capitalismo/precarietà era
già stata individuata nella narrazione teorica marxiana come costitutiva di
nuove forme di lavoro salariato. Il proletario di ogni epoca, soggettivamente
capace di produrre ma, poiché privo di mezzi di produzione, oggettivamente
incapace di farlo, risulta in quanto merce subordinato alle fluttuazioni perpetue
del capitale, alle sue crisi e alla concorrenza che ne deriva. I primi effetti
di questa subordinazione sono l’incertezza, l’imprevedibilità del proprio
futuro e delle proprie condizioni: gli stessi, in effetti, che subisce il
precario.
Se
appare quindi superfluo aggiornare la grammatica sociologica, occorre
necessariamente ripensare alle categorie cui siamo stati abituati negli ultimi
settant’anni per intuire quanto il rischio di un’omologazione verso il basso
sia vivo e potenzialmente drammatico.
Grazie all’attuazione
delle teorie friedmaniane da parte dei Chicago Boys, il Cile di Pinochet può essere
considerato il primo Paese ad adattare l’assetto del lavoro alle politiche
neoliberiste[3]. L’esperienza
dovette galvanizzare le democrazie anglosassoni che, nelle figure di madame
Thatcher e monsieur Reagan, ne danno ancor più vasta applicazione. L’adeguamento
delle politiche occupazionali alle esigenze neoliberiste richiedeva una
revisione del sistema formativo, che ha avuto una sua più completa espressione
nel Job Training Partnership Act
voluto nel 1982 da Reagan. Già Johnson in verità, con l’Economic Opportunity Act (1964), aveva varato e finanziato una
serie di “work-based learning programs”
individuando nel sistema educativo, reo di isolare gli studenti dal mondo del
lavoro, un ostacolo alla transizione all’età adulta. Ma è stato solo con le
riforme degli anni Ottanta che questi programmi sono entrati in vigore nelle
scuole medie superiori, introducendo lo stage per gli studenti che non
intendessero proseguire negli studi come soluzione al calo di occupazione che
aveva colpito gli Stati Uniti. Il processo è arrivato a completamento nel 1994
con lo School-to-work Opportunities Act
di Clinton, grazie al quale i tirocini sono stati estesi anche ai college e
alle università come elemento strutturale del
percorso formativo.
In Italia, l’«alternanza
tra studio e lavoro» finalizzata all’agevolazione delle «scelte professionali
mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro» viene introdotta dal pacchetto
Treu (l.n. 196/1997, art. 18), che, nel mettere complessivamente in discussione
il patto sociale novecentesco dal punto di vista dei contratti
lavorativi, definisce chiaramente le «iniziative di tirocini pratici» come «rapporti
non costituenti rapporti di lavoro». Alla stregua delle tendenze d’oltreoceano,
formazione e occupazione sono state legislativamente sottomesse alle logiche di
mercato subendo riforme che ne incrementassero produttività e profittabilità grazie
a una maggiore flessibilità nel mercato delle assunzioni. Si pensi in tal senso
al percorso che va dalla riforma Berlinguer (l.n. 30/2000) alla “Buona Scuola” renziana
(l.n. 107/2015), con l’allargamento degli strati di popolazione interessati a
questi “innovativi” metodi formativi.
Una seria spinta all’istituzionalizzazione
degli stage come forma di contratto di lavoro è stata data in Europa dalla
crisi finanziaria del 2007 e dal conseguente crollo dell’occupazione. In Italia
si conta che la popolazione giovanile tra i 15 e i 24 anni sia passata da un
tasso di disoccupazione del 24,1% nel 2005 a uno del 37,3% nel 2017 (fonte:
ISTAT), e che i NEET (Youth Neither in Employment nor in Education and
Training) siano passati tra il 2005 e il 2015 dal 17,1% al 21,4% (fonte:
Eurostat, LFS). Tendenze fin da subito preoccupanti, cui era possibile reagire
- chiediamo perdono per l’eccessiva semplificazione - investendo su due
fattori: sull’occupazione o sull’occupabilità. Sostanzialmente, si trattava di
scegliere tra un modello keynesiano,
che prevedeva politiche statali a sostegno dell’accumulazione mediante
interventi che mirassero al conseguimento della piena occupazione, e uno
spiccatamente neoliberista, affezionato ai concetti di competitività e
responsabilità individuale.
Si è
scelta l’employability, il novero di capacità trasversali, di soft
skills ancora potenzialmente perfettibili, o almeno modulabili su un
modello di impiegato al passo con le esigenze di un mercato sempre meno
regolamentato. Esigenze tracciate nel vademecum
che ha ispirato queste politiche, il Libro Bianco della Commissione
Europea, Crescita, competitività e occupazione. Le sfide e le vie da
percorrere per entrare nel XXI secolo steso nel 1993: «per agevolare l’occupazione
dei giovani, viene suggerito d’introdurre una maggiore flessibilità in materia di salario minimo, oneri
sociali ridotti o altri termini contrattuali, per esempio prevedendo modalità elastiche di apprendistato, di
formazione o di tirocini».
Il trait
d’union tra i “giovani” e la loro “occupazione” è stato naturalmente
individuato nella formazione, cui è demandato il compito di educare i giovani
all'accettazione del lavoro gratuito, allo status di lavoratore non-lavoratore,
alla contraddizione dell’iper-specializzazione a fronte di mansioni
dequalificate.
Ad
oggi non esistono banche dati esaustive che forniscano numeri attendibili - sia
mai se ne deducesse la plateale inadeguatezza! -, ma gli studi incrociati
raccolti nel volume curato dalla prof.ssa Cillo stimano che in Italia nel 2015
circa un milione di giovani abbia svolto almeno uno stage, e che solo l’11,9%
di questi abbia effettivamente trovato impiego presso l’azienda tutor (fonte:
Unioncamere 2015). Il tasso poi d’occupazione tra quanti precedentemente
impiegati in attività di tirocinio e quanti invece senza esperienza mostra uno
scarto risibile, a dimostrazione della sostanziale inefficacia dell’apprendistato:
il 37% a fronte del 35% (fonte: NACE). Da puntualizzare poi che, in caso di
ente pubblico, la possibilità di assunzione è nulla: il blocco del turn-over e l’accessibilità solo tramite
concorso impedisce a qualunque stagista di ottenere un posto di lavoro al
termine del periodo concordato, destinato a rimanere nulla più di una
compassionevole voce curricolare.
I dati sono sensibilmente orientati
verso un sostanziale fallimento del fenomeno stagistico. Eppure, ad oggi,
nessun governo europeo sembra intenzionato a un’inversione di rotta
riconoscendo la scarsa lungimiranza del provvedimento. Cui prodest, quindi?
Forse
occorre specificare alcune caratteristiche dei contratti da stagisti. Stante la
grammatica nebulosa che avvolge i termini “stage”, “tirocinio” e “apprendistato”,
grosso modo si può definire il primo come un periodo di formazione in un
determinato ambito lavorativo, che può essere curricolare, e quindi
obbligatorio, o extracurricolare, e dunque su base volontaria. In base al d.m.
n. 142/1998 (sostanzialmente inalterato per quanto riguarda le seguenti
specifiche), lo stage, non costitutivo di un rapporto di lavoro, è accessibile
a chiunque, senza discriminazione d’età o di titoli. Altresì, non viene
previsto un obbligo di rimborso, eccezion fatta per i Tirocini formativi e
di orientamento introdotti dalla l. n. 92/2012 (della durata massima di sei
mesi e riservati a quanti abbiano ottenuto un titolo di studio da non oltre
dodici mesi) per i quali le Regioni devono stabilire una «congrua indennità».
Nella
semantica legislativa, il confine tra “stage” e “apprendistato” è stato
tracciato solo nella forma, non nella sostanza. Discorso leggermente diverso
per i termini “tirocinio/praticantato”, riferiti alle esperienze lavorative
ritenute imprescindibili all’interno di alcuni percorsi professionali (si pensi
all’avvocatura o alla medicina), per i quali non è comunque prevista una
retribuzione. Nei fatti, tutte queste pratiche sono finalizzate ad acquisire
abilità specifiche e competenze generiche, ma dei tre solo l’apprendistato è obbligatoriamente
retribuito. Non essendoci però alcuna prerogativa che lo pertenga
esclusivamente, non sorprende che il “contratto” più diffuso non sia quest’ultimo,
bensì lo stage. Non retribuito.
Lo stage non è un
rapporto lavorativo, quindi non ha diritto a un salario né a tutele
contrattuali. Lo stage non ha né salario né tutele contrattuali, quindi non è un
rapporto lavorativo. Come un uroboro eterodiretto, la normalizzazione del
lavoro non pagato a uso e consumo di élite ristrette consente il drastico
abbattimento dei costi del lavoro stesso, mentre l’istituzionalizzazione del
lavoro non-lavoro permette di ovviare alle tediose garanzie contrattuali in
materia di malattie, contributi etc. C’è di più: la legislazione in materia non
pone limiti anagrafici legati alla figura dello stagista, per cui il fenomeno,
che inizialmente interessava soprattutto neodiplomati, studenti universitari e
neolaureati sta trovando applicazione in tutte le età, con il 12% degli
stagisti tra gli over-35 (fonte: Ministero del Lavoro, Rapporto annuale sulle
comunicazioni obbligatorie 2017).
La caratteristica più diabolica
dello stage è la sua pervasività: dall’Alternanza scuola-lavoro alla
competitività della forza-lavoro sottopagata, il nuovo dispositivo
occupazionale è in grado di influire sensibilmente sull’assetto di un’intera
società. L’istituzionalizzazione della precarietà ha assunto facies via
via più umilianti, come i voucher e i co.co.pro., fino alla deregulation della gig
economy, abituando il mercato a una gestione just-in-time anche
delle risorse umane. Il passo ad aberrazioni come i mini-job tedeschi è stato
breve, così come la trasformazione delle politiche di welfare in workfare attraverso il ricorso al lavoro gratuito come
misura contro la povertà, nel solco peraltro della subordinazione del reddito
al lavoro. “The Guardian”, ad esempio, ha svelato in un articolo del 2011 la
pratica britannica di vincolare l’accesso al sussidio di disoccupazione all’accettazione
di un periodo di lavoro gratuito presso grandi multinazionali come Tesco o
Poundland[4],
mentre in Italia per accedere alle misure di contrasto alla povertà occorre
accettare qualsiasi proposta di impiego, ivi compreso quello gratuito.
Programmi sussidiari poi come Garanzia Giovani consentono alle aziende l’assunzione
di personale a costo zero, dacché i rimborsi sono onere statale. Per non
parlare del ricatto del “lavoro volontario” imposto a migliaia di richiedenti
asilo: protezione internazionale in cambio di prestazioni lavorative. Queste
misure, tese all’aumento dei tassi di occupazione, si mostrano sostanzialmente
fallimentari: su suolo italiano, a ridimensionare l’ottimismo per i 345mila
nuovi posti di lavoro creati nel 2017, intervengono due tendenze. Da un lato
infatti la crescita di lavoratori dipendenti è legata quasi esclusivamente a
contratti a termine (450mila sui 497mila registrati da novembre 2016 a novembre
2017), dall’altro le figure richieste rientrano in settori a basso grado di
qualifiche (fonte: ISTAT)[5].
L’iniezione su mercato
di una formula che consenta una costante disponibilità di manodopera gratuita
(o tutt’al più sottopagata) spinge inevitabilmente all’adeguamento, quando non
alla sostituzione, dei contratti preesistenti, oltre che alla svalutazione dei
dipendenti fidelizzati e alla dequalificazione delle mansioni. Per citare un solo
esempio, a Venezia, i 450 dipendenti dei Musei Civici rischiano il
licenziamento per il passaggio dell’appalto da Cns alla cordata di Opera
Opifici Fiorentini Spa, la cui offerta economica risultava più vantaggiosa. Un’appetibilità
costruita sulle solide certezze del tirocinio: tra gli stage promossi da Ca’ Foscari
per i suoi studenti fanno ora infatti capolino posizioni aperte proprio per la
Fondazione.
A
monte, perché folte schiere di giovani (e meno giovani) siano disposte a
lavorare gratuitamente o quasi, dimentiche di qualsiasi rivendicazione, occorre
da un lato che siano state educate al nuovo altare del lavoro precario,
possibilmente il più precocemente possibile, come suggerisce il «nuovo format
di apprendimento dinamico e attivo» previsto dal ministro Giannini, dall’altro
che abbiano un fine, un movente: una promessa[6].
Lungi dall'assolvere una funzione
pedagogica critica, il progetto educativo assume i tratti di un dispositivo di
assoggettamento entro cui operano tendenze contraddittorie, che contribuiscono
ad alienare l’individuo, nella fattispecie lo studente[7].
Questo da un lato viene ascritto entro un paradigma normativo e burocratico
rigido e cavilloso, che prescrive norme di comportamento e stechiometrici
parametri valutativi come i CFU, dall’altro è invece spinto a entrare nello
schizofrenico mondo delle “opportunità”, del lifewide education. La
quantificazione del tempo necessario a ultimare gli studi trova il suo riflesso
nel lifelong education, contribuendo alla deformazione dello specchio
temporale già operata dall’autonomizzazione delle professioni. Soprattutto il
lavoro estetico infatti non può più far ricorso al tempo come unità di misura né
del proprio sforzo né della giusta retribuzione, provocando da un lato la
dilatazione dei tempi lavorativi, dall’altro la diversificazione delle
mansioni. Anche nel caso del lavoro dipendente, i contratti hanno contorni
normativi e giuridici sempre più sfumati, che approssimano più che altro a «convenzioni
pratiche»[8]. È facile che un giovane cresciuto in questo
contesto accetti lo status di lavoratore non-lavoratore accogliendo la
precarietà e l’incertezza sociale come ontologie[9]:
lo statuto identitario di questa formazione della prestazione è l’individuo “responsabile”[10].
Ricorrere al sistema educativo per
instradare in questo percorso intere generazioni significa perseguire un vero e
proprio disciplinamento all’auto-sfruttamento, instillare
imperativi come flessibilità,
disponibilità, auto-imprenditorialità, abituare alla pluralità di fonti
di reddito, preparare, in effetti, la strada all'accettazione acritica del
lavoro gratuito, alla ricerca di un auto-impiego. Tutte porte su un severo
frazionamento dell’identità di classe - in tal senso, tornando a Standing, la
categoria di “proletariato” andrebbe aggiornata - a favore di un nuovo
individualismo, anche della colpa. La disoccupazione diventa così mancanza di
intraprendenza, il basso salario indice di scarse competenze e via di seguito,
in linea con una società della prestazione in cui la messa a valore dell’individuo
non può prescindere dal processo formazione-indebitamento-messa a valore delle
competenze acquisite. I precari sono accomunati da uguali condizioni
psicologiche, non da identici titoli, parametri contrattuali, condizioni
lavorative o inquadramenti sociali e il governo di questa forza-lavoro precaria
si dà lungo due assi: un asse collettivo, di pauperizzazione e frammentazione,
e uno singolare di indebitamento materiale e morale, che tende costantemente
all’auto-responsabilizzazione, neutralizzando sia il portato delle lotte che i
tentativi di organizzazione, di passaggio marxiano da classe in sé a classe per
sé.
Choosy,
bamboccioni, fannulloni. Così negli ultimi anni i calcoli governamentali hanno
pubblicamente ritratto i giovani, rei di non conformarsi agli standard
valutativi che ne misurerebbero le potenzialità d’azione, la capacità di essere
forza-lavoro. C’è chi reagisce annichilendosi, cedendo al ricatto del Doppelcharakter,
altri rilanciano fuggendo altrove, alcuni resistono consci dei tassi di
rischio.
Se
quindi non ha senso concepire il “precariato” come una nuova classe sociale, si
può invece parlare in questi termini in ambito universitario degli operatori
del sapere? Il proletariato cognitivo può acquisire una coscienza di classe? Sì,
se individua le comuni condizioni produttive e riconosce il proprio potenziale
progressivo. Sfruttando anche la pluralità di competenze, come insegna la sharing
economy, la classe cognitiva può divenire soggetto conflittuale praticando,
in primis, un uso non economico del proprio sapere. Emanciparsi dall’intermittenza
delle prestazioni lavorative, rifiutare qualsiasi rappresentazione passiva,
rivendicare la propria forza-lavoro come potenza di libertà, e non come sostanza
quantificabile. Pratiche centrali di una conflittualità sociale che, partendo
dall’università, possono dislocarsi nell’intero tessuto sociale per costruire
mutualismo e dare forma istituzionale autonoma alla cooperazione tra le
molteplici figure del lavoro.
[1]
G. Standing, Precari: la nuova classe esplosiva, trad. it. M. Vigiak,
Bologna 2012 (tit. orig. Precariat: the new dangerous class, 2011).
[2]
cfr. intervista di D. Casassas e I. Parra a G.S. per Crític (16/01/2016)
«El proletariat, per
la seva banda, ha tingut sempre una ocupació estable a jornada completa. Ha
estat explotat al lloc de treball en l’horari laboral. És a dir, un règim de
temps laboral industrial».
[3]
D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, trad. it. P. Meneghelli,
Milano 2007 (tit. orig. A brief history of neoliberalism, 2005).
[4]
S. Malik,
«Young jobseekers told to work without pay or
lose unemployment benefits», The Guardian,
16 novembre 2011.
[5]
Un’analisi più specifica su questa tendenza e sulle tipologie di lavoro
dipendente si trova nell’articolo di A. Magnani, «Cresce il lavoro ma non la qualità: boom di
occupazione "bassa" e contratti precari»,
Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2018.
[6]Sul fenomeno della
cosiddetta “economia della promessa” si consiglia la lettura del testo: AA.VV.,
Economia politica della promessa,
Manifestolibri, Roma 2015
[7]
Per l’approfondimento dell’impatto che lo stagismo giovanile e in particolare l’Alternanza
scuola-lavoro hanno sulle politiche lavorative si consiglia la lettura di D.
Del Bello, L’alternanza scuola-lavoro e la lotta di
classe rovesciata, Globalproject.info, 3
novembre 2017.
[8]
F. Chicchi e M. Turrini, «Lisciature e striature del capitalismo cognitivo.
Percorsi di autonomia professionale e spazi espressivi della precarietà nel
distretto del piacere», in Precariato. Forme e critica della condizione precaria,
Verona 2015, pp. 46-62, qui p. 50.
[9]
Sull’argomento si consiglia la lettura del documento steso dai Centri Sociali
del Nordest, Evitare la catastrofe. Appunti teorici per
orientarsi nel presente,
Globalproject.info, 9 febbraio 2017
[10]
Nell’accezione di F. Chicchi e A. Simone in La società della prestazione,
Ediesse 2017, p. 71.
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