James O’Connor è ben conosciuto, prima che per la sua proposta di un approccio “ecomarxista”, per la sua analisi della crisi fiscale dello stato. Di qui, l’estrema attualità di un autore che cerca di esaminare, dal punto di vista di un marxismo “critico”, problemi che al tempo in cui scrive sono “emergenti” e che oggi sono autentiche “emergenze”. In entrambi i casi, O’Connor osserva come il capitale esporti le proprie contraddizioni fuori dai ristretti confini della produzione, per ritrovarsi ad affrontarle quindi nel proprio ambiente: la produzione capitalistica funziona, da un certo punto di vista, come la macchina di Carnot, incapace di generare movimento senza esportare disordine al di fuori dei propri confini. Ma, diversamente dalla macchina di Carnot, che continua a compiere gli stessi movimenti, ci troviamo qui di fronte a processi storici, dove il capitalismo si espande colonizzando nuovi ambiti e nuovi territori, per ritrovarvi di volta in volta le proprie stesse contraddizioni. Un discorso di questo genere si colloca, in realtà, a pieno titolo sulla scia di un complesso di riflessioni sull’imperialismo, a partire da Hobson, Lenin e Rosa Luxemburg.

In ogni caso, esiste un filo rosso che unisce l’autore della Crisi fiscale dello stato, nei primi anni settanta, all’autore di Natural Causes un quarto di secolo dopo. Il filo rosso può essere individuato nell’analisi dei rapporti tra capitalismo, stato e movimenti sociali (dai movimenti di protesta degli anni sessanta ai movimenti ecologici degli anni ottanta e novanta). Il punto di partenza, ci riferisce in un’ottica autobiografica lo stesso O’Connor, può essere individuato negli interessi che muovono, negli anni sessanta, il lavoro di un giovane studioso di fisco e finanza pubblica – uno studioso di sinistra, che intuisce le potenzialità di una prospettiva che parta dal conflitto di classe. A dispetto della loro presunta neutralità, lo stato e la finanza pubblica sono capaci di dirci, a questo riguardo, molto più di quanto noi umani non possiamo immaginare. Il capitalismo dell’“età dell’oro” ha spostato sullo stato e sulla spesa pubblica, sul welfare e sul warfare, le proprie intrinseche dinamiche conflittuali.
Partendo da alcune recenti rappresentazioni, a tratti forse un po’ di maniera, siamo abituati ad immaginare il capitalismo “fordista” di questa fase storica come una realtà particolarmente solida e capace di assicurare, grazie alla cooperazione tra capitale e pubblici poteri, un certo margine di certezza nelle prospettive esistenziali del lavoratore: parliamo di un capitalismo produttivo e non finanziario, ispirato ad un “liberalismo responsabile” (embedded liberalism), promotore di un “compromesso di classe”. Una simile visione, sicuramente, coglie alcuni aspetti cruciali ma, come ogni narrazione centrata su di un’“età dell’oro”, non è aliena dal rischio della trasfigurazione apologetica. Dal punto di vista che O’Connor ha saputo costruire grazie al suo incontro con la sociologia politica di Claus Offe, le cose si discostano almeno in parte da un simile modello. Il mercato del lavoro, nei decenni del dopoguerra, è costituito da almeno tre segmenti, come ci mostra la tabella qui di seguito riportata. Di questi, uno è peggio retribuito e più precario degli altri due, caratterizzati da più elevati livelli salariali e da maggiore stabilità (in breve, da una maggior livello d’inclusione dei lavoratori). Uno si colloca alle dipendenze dello stato e due nell’ambito dell’economia privata.
Inclusione lavoroSettore privatoSettore pubblico
 
Elevata
 
Settore monopolistico
 
Settore statale
 
Bassa
 
Settore concorrenziale
 

Nell’ambito dell’economia privata, il settore monopolistico[1] si caratterizza per salari determinati da decisioni di natura amministrativa, assunte anche sulla base della spinta di un movimento sindacale fortemente organizzato. Gli incrementi salariali si scaricano poi direttamente sui prezzi, diversamente da quanto accade nel settore concorrenziale, dove il livello dei prezzi ha un ruolo di primo piano nelle dinamiche della competizione – e le organizzazioni sindacali, laddove presenti, si dimostrano per ciò stesso molto più accondiscendenti. Salari e prezzi, nel settore concorrenziale, sono quindi molto più fortemente determinati dalla logica di mercato.
Ai due settori che caratterizzano, nel suo complesso, l’economia privata, si aggiunge un settore pubblico che, nel contesto storico di cui stiamo parlando, assume un crescente rilievo. Il settore pubblico deve fornire una serie di inputindispensabili al funzionamento complessivo della macchina capitalista e, nello stesso tempo, deve renderne tollerabili gli output. A fronte di una circolazione sempre più accelerata del capitale, per esempio, si rendono necessari investimenti infrastrutturali e, del resto, il settore monopolistico, tecnologicamente all’avanguardia nei decenni postbellici, richiede una valorizzazione del capitale umano – e quindi crescenti spese nell’istruzione. D’altro canto, le dinamiche capitalistiche esercitano un certo impatto sul loro contesto ambientale ed umano. Di nuovo, questo implica una crescente spesa volta a mitigare tale impatto: se il processo di accumulazione capitalistica ha prodotto effetti di disgregazione del tessuto sociale, per esempio, si sente maggiormente la necessità di un intervento pubblico attraverso politiche di welfare…
L’incontro con Claus Offe e Jürgen Habermas, durante il soggiorno in Germania, come dicevamo, ha attirato l’attenzione di O’Connor sulla sociologia politica, sul problema della legittimazione e sul ruolo dei movimenti. Al centro di vecchi e nuovi movimenti, che danno espressione alla lotta di classe, fiscalità e spesa pubblica hanno acquisito un inedito carattere di centralità. Se il capitalismo produce effetti distruttivi sui contesti umani ed urbani, per esempio, da un lato vedremo svilupparsi, da sinistra, la richiesta di un crescente investimento nelle politiche di welfare; dall’altra, da destra, la richiesta di un crescente investimento in politiche di sicurezza e ordine pubblico. Negli Stati Uniti, il settore pubblico finisce anche per assorbire manodopera di colore, decisamente discriminata nel settore monopolistico e generalmente destinata a posizioni marginali del settore concorrenziale.
Similmente, il conflitto riguarda le fonti da cui attingere per sostenere la spesa pubblica: la proprietà, i profitti, i salari, il reddito delle imprese o il reddito delle famiglie, un’imposta fortemente progressiva o la famigerata flat tax, oppure? Inutile ribadire la preveggenza del sociologo ed economista americano, che già nei primi anni settanta intuisce la rivoluzione conservatrice dell’era di Reagan e Margareth Thatcher (meno investimenti sulla sicurezza sociale, una promessa non mantenuta di defiscalizzazione, crescente enfasi sull’ordine pubblico e sulla sicurezza internazionale). È come se dai luoghi della produzione il conflitto sociale si fosse spostato ad uno dei principali ambiti della riproduzione sociale, cioè lo stato, la fiscalità e la spesa pubblica. Più di recente, l’imprescindibile analisi di Wolfgang Streeck (2013) evidenzia come uno stato in crisi di legittimità si trasformi da stato fiscale in stato debitore, dove il debito è in un primo tempo sovrano e poi contratto con investitori privati.
Ma già in questa prima fase della sua produzione, all’autore sono presenti alcune tematiche che troveranno successivo sviluppo nell’ecomarxismo. Il capitalismo, da un lato, ha bisogno di risorse naturali e sociali (forza lavoro dotata di un’adeguata formazione, fonti energetiche, ecc.). Dall’altro, i processi di produzione capitalistica generano un impatto sulla realtà fisica e sociale, che pure gioca un ruolo di primo piano nel rendere possibili gli stessi. L’intervento pubblico, e parte della spesa pubblica, è pertanto mirato a restaurare periodicamente le condizioni della produzione capitalistica, che le stesse dinamiche capitalistiche mettono continuamente in discussione. L’insorgere di forme di devianza in contesti urbani marginali implica, per esempio, l’intervento degli apparati repressivi e del welfare pubblico. Senza tali interventi, la disgregazione sociale potrebbe, per esempio, mettere in discussione la riproduzione della forza lavoro: le “nuove leve” da introdurre nei processi produttivi potrebbero essere meno disciplinate, meno motivate e disponibili ad accettare un lavoro subalterno… Lo stesso discorso vale con riferimento all’ambiente fisico della città, ma anche all’ambiente naturale.
Questo porta O’Connor (1988, 1998) a teorizzare una seconda contraddizione del capitale: se la prima (capitale/lavoro) concerne i rapporti di produzione, la seconda concerne le condizioni di produzione[2]: “il punto di partenza di una teoria ecologica marxista della crisi economica e della transizione al socialismo focalizza la propria attenzione sulla contraddizione tra i rapporti di produzione capitalistici (e le relative forze produttive), da un lato, e le condizioni della produzione capitalistica dall’altro” (O’Connor, 1998: 160).
Di conseguenza, di fronte al manifestarsi della crisi ecologica, il sociologo americano opta per una revisione critica del marxismo, piuttosto che per una presa di distanza dallo stesso, come faranno tanti altri – che pure partono da una visione assai più radicale del marxismo – negli stessi anni. La sinistra post-marxista, sostiene dunque O’Connor, avrebbe avuto gioco relativamente facile nel monopolizzare il discorso sulle condizioni di produzione, proprio a causa della scarsa attenzione nei loro confronti da parte della teoria e della prassi politica marxista: “Per quanto Marx ed Engels fossero chiaramente consapevoli del danno che il capitalismo produce sulla natura materiale e biologica, così come umana […] Marx ha scritto poco sui modi con cui il capitale si autolimita, mettendo in discussione le sue stesse condizioni ambientali e sociali […] non ha scritto praticamente niente sull’effetto delle lotte sociali organizzate sull’assetto delle condizioni di produzione […] Né ha scritto qualcosa sui rapporti tra la dimensione materiale e sociale delle condizioni di produzione” (O’Connor, 1988: 123-125, 12).
Nella propria analisi, quindi, l’autore chiama in soccorso un socialista non marxista come Karl Polanyi. Quest’ultimo, già negli anni quaranta, osservava i deleteri effetti esercitati dall’economia di mercato e dal capitalismo sull’ambiente naturale e sociale – proponendosi per ciò stesso come “un astro luminoso in un cielo costellato di buchi neri e di stelle morenti di naturalismo borghese, neo-malthusianesimo, tecnocrazia del Club di Roma, romanticismo della deep ecology e mondialismo delle Nazioni Unite […] incapaci di centrare l’attenzione sul significato specificamente capitalistico della scarsità, ovvero del processo per il cui tramite il capitalismo costituisce l’autentica barriera di se stesso, a causa delle sue caratteristiche ed autodistruttive forme di proletarizzazione della natura umana, alienazione della forza lavoro, appropriazione del lavoro e trasformazione della natura e dell’ambiente urbano in capitale” (O’Connor, 1998: 159).
D’altra parte, il crescente impatto sulle condizioni di produzione implica un intervento di mediazione tra queste ultime e il capitale da parte dello stato, analogo a quello che aveva rappresentato il “compromesso di classe” keynesiano nell’ambito dei rapporti di produzione. Questo implica, a sua volta, una crescente politicizzazione delle condizioni stesse (attraverso le politiche ambientali, sociali ed urbane, la definizione dei beni comuni, ecc.). In questo contesto assistiamo, pertanto, ad un confronto tra le espressioni politiche del capitale, da un lato, i più diversi movimenti politici e sociali, dall’altro, e le strutture dello stato, “che mediano e filtrano le lotte per la definizione e l’uso delle condizioni di produzione” (O’Connor, 1988: 28). Così si spiega lo “stretto legame tra la tendenza del capitale a danneggiare e distruggere le proprie stesse condizioni e il sorgere di nuovi movimenti sociali, volti a restaurare tali condizioni. Il femminismo, i movimenti a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, l’ambientalismo e i movimenti urbani di ogni tipo e genere sono qualcosa di più della difesa della forza lavoro, della natura esterna e delle condizioni di vita in città, ma sono anche questo. Questo implica la possibilità d’integrare la teoria del capitale e delle sue condizioni con una teoria dei movimenti sociali e dei conflitti politici” (O’Connor, 1998: 128). Implica, a sua volta, una crescente politicizzazione del capitalismo, un “sovvertimento della naturalezza dell’esistenza del capitale” (O’Connor, 1988: 39), in direzione quindi di una profonda dereificazione.
A quasi quarantacinque anni dalla sua pubblicazione, La crisi fiscale dello statorimane un libro estremamente attuale, ancora valido nella sua tesi fondamentale, anche se alcuni aspetti andrebbero rivisti. L’avvento della globalizzazione, per esempio, è stato caratterizzato dall’affermarsi di grandi gruppi industriali a livello planetario. Per altro verso, ha tuttavia privato il settore monopolistico della protezione dei confini nazionali e, in questo modo, ha completamente scompaginato le carte del modello tripartito (settore concorrenziale, monopolistico e pubblico) che O’Connor propone agli inizi degli anni settanta. Negli anni in cui scriveva O’Connor, una sinistra che si candidasse a governare poteva ragionevolmente proporsi la statalizzazione di alcuni dei settori più consolidati e strategici dell’economia nazionale. È quello che succede, tra l’altro, all’acciaio francese, quando Mitterrand diventa presidente con il sostegno dei comunisti. Poi le cose assumono tutta un’altra piega, e i grandi gruppi nazionali entrano nel gioco di una spietata competizione a livello mondiale. A seguito della privatizzazione negli anni novanta, l’acciaio francese viene acquistato dalla Mittal: ne nasce Arcelor-Mittal, il principale gruppo in un mercato oligopolistico mondiale.
La finanza pubblica rimane al cuore delle issues politiche e dei conflitti sociali, ma in un quadro molto più complesso e frastagliato, tra rivendicazioni interne, spinte autonomistiche e “vincoli esterni”, intesi come strumenti di unagovernance sovranazionale. L’ambiente è una issue di livello planetario che fornisce l’occasione, tra tante contraddizioni, al consolidarsi di una tecnocrazia ecologica legata alle grandi organizzazioni internazionali. Potremmo prendere ad esempio le elezioni americane del 2016. Da un lato, la candidata democratica appoggia chiaramente l’ecologia delle organizzazioni internazionali, nella forma dei trattati sul clima. Dall’altro, sostiene anche accordi commerciali internazionali (TTIP, CETA) fortemente desiderati dai principali attori dell’economia planetaria e fortemente contestati da movimenti ecologici e sindacali. Il suo antagonista repubblicano affossa il TTIP, rifiutando peraltro anche, nel nome della crescita economica, gli accordi sul clima. Il crescente peso degli organismi tecnocratici sovranazionali e, in generale, delle expertise, sembra andare in direzione esattamente antitetica rispetto a quella democratizzazione delle istituzioni e politicizzazione delleissues che O’Connor auspicava fin dai primi anni settanta… Gli scenari si sono fatti più complessi e frastagliati: ne era consapevole anche O’Connor, quando nel 2000 scriveva la prefazione alla riedizione della Crisi fiscale dello stato; ne sono necessariamente consapevoli, ai nostri giorni, i principali protagonisti delle lotte sociali ed ambientali a livello planetario.

Note
[1] Qui, O’Connor si ricollega all’analisi di Sweezy e Baran (1966), nei cui confronti si dimostra comunque per certi versi critico. In particolare, l’autore prende le distanze dalla mera assimilazione della spesa pubblica al “surplus economico”, e quindi a manifestazioni di “circolazione del capitale”: al contrario, come vedremo meglio, dal punto di vista di O’Connor la spesa pubblica ha un ruolo di primo piano nelle dinamiche dell’accumulazione capitalistica.
[2] Le condizioni della produzione, prosegue l’autore, possono essere ripartite in tre categorie: le “condizioni personali”, cioè la forza lavoro (il “capitale umano”); le “condizioni esterne”, cioè l’ambiente nell’accezione più ampia (il “capitale naturale”); le “condizioni comunitarie generali”, cioè le infrastrutture e lo spazio urbano, “e, potremmo aggiungere, la comunità, nella misura in cui è potenzialmente passibile di trasformazione in capitale (‘capitale di comunità’)” (O’Connor, 1998: 126).
Bibliografia
O’Connor J. (1973), La crisi fiscale dello stato, ed. it. Einaudi, Torino, 1979
O’Connor J. (1988), L’ecomarximo, ed.it., Datanews, Roma, 1990
O’Connor J. (1998), Natural Causes. Essays in Ecological Marxism, Guilford, Londra.
Polanyi, K. (1944), La grande trasformazione, ed. it. Einaudi, Torino, 2000.
Streek, W. (2013), Tempo guadagnato, ed.it. Feltrinelli, Milano, 2014.
Sweezy, P. e Baran, P. (1966), Il capitale monopolistico, ed. it. Einaudi, Torino, 1977.