In questi mesi siamo bombardati dalle pubblicità di ENI che ci spiegano come si stia impegnando a produrre "biodiesel" dalle bucce di banana. L'ennesimo Ministro alle energie fossili, Carlo Calenda, ci ha recentemente voluto far credere che rischiamo il congelamento per un'interruzione di qualche ora della fornitura di gas russo. Queste sono le #fakenews.
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micromega Giuliano Garavini
Veniamo alle #realnews. L'ENI è un acronimo per Ente Nazionale Idrocarburi. Investe praticamente solo in estrazione, raffinazione e distribuzioni di idrocarburi. Recentemente ha perfino ritenuto opportuno cercare petrolio accanto agli orsi polari nell'Artico. Quanto a Calenda, l'Italia non ha alcun bisogno del nuovo gasdotto TAP che porterà in Italia il gas che arriva dall'Azerbaigian: abbiamo una capacità di importazione di circa 140 mld di metri cubi l'anno a fronte di un consumo di 70,9 mld, in constante calo dal 2005. Tra rigassificatori mai entrati in funzione, metano che arriva dalla Libia, dall'Algeria e dalla Siberia, il tutto combinato con la tendenza alla riduzione dei consumi, non sappiamo più a chi da' i resti, come si dice a Roma.
Invece della dieta fossile prescritta da ENI e Calenda andrebbero preparate ben altre pietanze. Un buon antipasto sarebbe bloccare ogni nuova ricerca di idrocarburo (come in Francia) e raddoppiare le royalties su gas e petrolio estratti in Italia. Il piatto forte sarebbe invece la vendita della quota statale di ENI, vincolando però, e questo è cruciale, i ricavati (oltre 16 miliardi di euro) alla creazione di una società totalmente pubblica che investa in rinnovabili, tecnologie "verdi", e risparmio energetico.
Perché dico che serve una società totalmente pubblica per l'energia (rinnovabile)?
In primo luogo perché consentirebbe allo Stato italiano di svincolarsi, sia politicamente che economicamente (ma anche culturalmente), dall'abbraccio mortale delle aziende petrolifere.
Pensiamo alla più significativa di queste aziende italiane. L'ENI di oggi non ha nulla a che fare con l'ENI totalmente pubblica fondata da Enrico Mattei. Quella era una società statale creata con l'obiettivo di emancipare l'Italia dal Cartello delle multinazionali anglo-americane, per poi vendere gas e petrolio agli italiani a prezzi inferiori rispetto a quelli del Cartello. Almeno dagli anni '70 non esiste più un Cartello petrolifero: esistono una molteplicità di attori (i più importanti dei quali sono probabilmente le società nazionali dei Paesi produttori) che operano in un mercato internazionale dove c'è una sovrabbondanza di greggio. L'ENI di oggi, privatizzata dal 1995 con lo Stato come azionista di maggioranza, è indistinguibile per il suo modus operandi dalle altre multinazionali.
Se ENI non si distingue dalle altre multinazionali, in compenso ci crea più di un problema mentre cerca di arraffare idrocarburi in mezzo mondo, anche grazie al peso spropositato che essa esercita sulla politica estera italiana.
Il Primo ministro Paolo Gentiloni si è fatto recentemente accompagnare dall'amministratore delegato ENI Claudio Descalzi in tutte le sue tappe del recente viaggio per rilanciare le sempre più cruciali relazioni tra Italia e Africa. Se quel che è certo è che l'ENI ha fatto affari d'oro, è altrettanto vero che i suoi interessi commerciali coincidano totalmente con le priorità italiane?
Pensiamo all'Egitto. Lì il nostro interesse ad ottenere con ogni mezzo la verità sull'omicidio Regeni si scontra con le priorità di un'azienda che ha effettuato la madre di tutti i suoi investimenti (11 mld di euro) nel giacimento di gas egiziano di Zhor, proclamandosi partner strategico del governo Al Sisi. Pensiamo alla Nigeria. Lì ENI è accusata dalla magistratura italiana di aver pagato la madre di tutte le tangenti (1,2 mld di euro, la più alta mai pagati nel mondo) per accaparrarsi il gigantesco giacimento petrolifero offshore OPL 245, con la duplice conseguenza che non un soldo è arrivato nelle tasche dello Stato nigeriano, e che la concessione ENI viola norme del diritto nigeriano che prevedono che almeno il 60% della proprietà di ogni giacimento debba restare in mani nigeriane (mentre ENI se l'è spartito al 50/50 con Shell). L'interesse dell'Italia in Nigeria non sarebbe piuttosto quello di consentire ai Stato nigeriano di ricavare più soldi possibile dallo sfruttamento delle proprie risorse naturali in modo da rendere più efficace il contrasto al fondamentalismo islamico e contenere i fenomeni migratori (proprio dalla Nigeria provengono la maggior parte dei migranti africani in Italia)?
L'ENI provoca poi danni ambientali in Italia, come quello di gravità inaudita dovuto allo sversamento di 400 tonnellate di greggio dal Centro Oli Val D'agri che minacciano l'invaso del lago Pertusillo in Basilicata. Si batte con tutta la forza dei suoi lobbisti affinché non vengano aumentate le royalties sull'estrazione degli idrocarburi e perché non vengano rinegoziate le sue concessioni di gas in Adriatico. La città di New York sta ritirando più di 150 mld di dollari del suo fondo pensioni dagli investimenti in società petrolifere, e minaccia contro di esse una causa miliardaria in nome della lotta al cambiamento climatico. Lo Stato italiano favorirebbe mai una simile iniziativa, sapendo che qualsiasi multa si tradurrebbe in una perdita di valore della partecipazione statale in ENI, nonché di una drastica riduzione dei dividenti?
Vendere la quota statale di ENI non significherebbe certo mandare in malora un'impresa di grande importanza per il Paese; significherebbe solo svincolare gli interessi dello Stato italiano da quelli commerciali di ENI. Quando ENI sarà una società totalmente privata, essa potrà benissimo continuare a macinare profitti come (e magari meglio) delle altre multinazionali petrolifere, e anche l'italianità dell'azienda potrà essere salvaguardata.
La seconda ragione per cui la creazione di una società dell'energia totalmente pubblica è auspicabile, è insieme di carattere industriale e di sostegno ai consumatori.
Una società che investa solo nelle rinnovabili, nelle tecnologie verdi e nel risparmio energetico creerebbe in Italia migliaia di posti di lavoro in settori tecnologici del futuro, anche per i giovani laureati, cervelli in fuga costretti ad andare a trovare lavoro qualificato all'estero. Al contempo, non dovendo generare utili per i propri azionisti, potrebbe garantire agli utenti una riduzione della bolletta energetica, potendosi permettere di vendere energia praticamente a prezzo di costo. Sarebbe allo stesso tempo uno strumento pratico per rendere credibili gli impegni italiani alla riduzione delle emissioni di CO2 dall'utilizzo di combustibili fossili (incluso il gas), produrrebbe occupazione qualificata in Italia, e arrecherebbe benefici in bolletta ai consumatori italiani.
La terza ragione è di carattere più ampio, e riguarda la necessità di rilanciare il ruolo del pubblico, non solo come regolatore ma anche nella gestione diretta dei servizi. In altre parole: la necessità di ribaltare il paradigma neoliberale.
La liberalizzazione dei servizi come quelli dell'energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni lanciata negli anni '80 con il progetto del Mercato unico europeo, se ha consentito di alleggerire i bilanci pubblici e di arricchire l'esiguo numero dei già ricchi (tipo i Benetton per Autostrade), ha però portato ad un aumento delle tariffe per gli utenti e a scarsità di investimenti.
Nel caso dell'energia il fallimento delle politiche di liberalizzazione e di privatizzazione, che hanno fatto sparire in tutta Europa le grandi società totalmente pubbliche per trasformarle in società per azioni, è particolarmente evidente. Le bollette del gas e dell'elettricità sono aumentate esponenzialmente fino alla crisi del 2010; per poi stabilizzarsi (invece di calare come avrebbero dovuto) mentre crollavano i prezzi delle materie prime gas e petrolio, e mentre le economie europee entravano in recessione. In Italia, la notizia di questi giorni è l'aumento di oltre il 5% delle tariffe di gas e elettricità, proprio mentre gli italiani avrebbero bisogno di più soldi in tasca.
Lo stesso indispensabile passaggio alle energie rinnovabili, e l'ancora più necessario risparmio energetico, procede a ritmi troppo lenti perché i meccanismi di "mercato" - quali gli incentivi - non bastano ad invertire rapidamente la tendenza al predominio delle energie fossili. Se poi questi incentivi significano solo un aumento delle bollette o delle accise, alla fine il risultato sarà che i più poveri pagheranno sempre di più per contenere i cambiamenti climatici.
Del fatto che la progressiva scomparsa delle aziende totalmente pubbliche come erogatrici di servizi essenziali sia un problema e non una soluzione, cominciano ad accorgersi anche alcuni leader europei. Per esempio, il Governo scozzese ha già previsto di creare una società energetica totalmente pubblica entro il 2021. In Italia questo sarebbe più facile che in Scozia perché le risorse potrebbero derivare da una vendita della quota statale di ENI. In questo modo, dopo la grande innovazione oramai sfiorita dell'ENI di Mattei, l'Italia potrebbe tornare ad essere all'avanguardia in Europa.
(23 gennaio 2018)
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