Intendiamoci, in quella piazza romana c'erano tantissime brave persone: a partire da Pier Luigi Bersani.
Persone di sinistra: cioè intenzionate a cambiare lo stato delle cose, e
a cambiarlo in direzione dell'eguaglianza, dell'inclusione e della
giustizia sociale.
Ma
i discorsi, il tono politico, il filo conduttore della manifestazione e
soprattutto la reticente conclusione di Giuliano Pisapia sono apparsi
autoreferenziali, chiusi: a tratti ombelicali. Rivolti al passato, e non
al futuro.
L'analisi
della realtà condivisa da coloro che hanno parlato è sembrata la
seguente: "il problema della Sinistra, e del Paese, è Matteo Renzi". Il
fatto che quel nome non sia quasi stato pronunciato non ha fatto che
aumentare la sua centralità, da fatale convitato di pietra: un
gigantesco "rimosso" che tornava fuori ad ogni frase. La versione dei
fatti è stata grosso modo questa: "la stagione del centrosinistra è
indiscutibile, l'Ulivo è ancora la stella polare. Poi è arrivato Renzi e
tutto si è rovinato. Ma se riusciamo a neutralizzarlo possiamo tornare
indietro, come se non ci fosse mai stato".
Ora, non sarò io a minimizzare la portata eversiva della presenza di Renzi nella
sinistra, e in generale nella politica, italiana. Credo, anzi, di
essere stato tra i primissimi a denunciarne l'estrema pericolosità. Ma
oggi – mentre Renzi galoppa senza freni verso un definitivo suicidio
politico, trascinandosi dietro il Partito Democratico – sarebbe
irresponsabile non chiedersi come siamo arrivati a lui. Non possiamo
raccontarci che è venuto fuori come un fungo, senza radici e senza
ragioni. Non possiamo nasconderci che Renzi è il più grave sintomo di
una malattia degenerativa della sinistra, ma non ne è la causa.
Dalla
classe dirigente del centrosinistra, cioè da coloro le cui scelte
politiche hanno generato un Renzi, ci si aspetta dunque un'analisi
profonda, e profondamente autocritica. Tanto più se hanno votato fino a
ieri tutte le leggi renziane, magari arrivando a votare sì anche alla
disastrosa riforma costituzionale. Sia chiaro: non si pretende
un'abiura, non si chiedono delle scuse, ma questa inquietante rimozione
rischia di preludere ad una coazione a ripetere che non possiamo
permetterci.
Per
intendersi, con un singolo brutale esempio: se oggi il ministro degli
Interni del governo Gentiloni (governo sostenuto dalla fiducia dei
parlamentari che da settembre si riuniranno nel gruppo di Insieme)
minaccia di chiudere i porti italiani in faccia ai migranti non lo si
deve ad una mutazione genetica renziana, ma ad un processo di smontaggio
dell'identità della classe dirigente di sinistra che parte ben prima di
Renzi, e minaccia di continuare ben dopo di lui.
Sul piano della tattica politica, tutto questo si traduce nella formula esibita dal ministro Andrea Orlando, non per caso presente dietro il palco di Santi Apostoli: "questa piazza non è alternativa al Pd". E Massimo D'Alema ha chiarito,
con la consueta intelligenza: "parleremo dell'alleanza di governo con
il Pd solo dopo il voto". E dunque è ormai chiaro: questo centrosinistra
che si autodefinisce "di governo", per tornare al governo avrà bisogno
del Pd. Di un Pd senza Renzi, o con Renzi nell'angolo: questa è la
scommessa di Santi Apostoli.
Ammettiamo
che il gioco riesca: un simile governo non sarebbe quello che è già il
governo Gentiloni (Lotti e Boschi a parte)? In concreto cosa
cambierebbe? Un tale governo di centrosinistra senza Renzi fermerebbe il
Tav in Val di Susa e l'Autostrada Tirrenica, bloccherebbe le
privatizzazioni e le alienazioni del demanio, cancellerebbe la
scellerata riforma Franceschini dei Beni Culturali, abrogherebbe la
Buona Scuola, farebbe davvero (e non solo studierebbe, come ha detto
Pisapia) una seria tassa patrimoniale, attuerebbe una progressività
fiscale e la gratuità del diritto allo studio, ricostruirebbe i diritti
dei lavoratori? Niente, nei discorsi di Santi Apostoli, permette di
predire una simile "inversione a u" rispetto alle rotte degli ultimi
vent'anni – e ho trovato francamente indegno il tentativo di Gad Lerner
di arruolare Stefano Rodotà tra i sostenitori di un progetto così poco
interessato al futuro.
Dunque
non c'è ormai più speranza di costruire una sinistra unita, che sia
davvero sinistra, e davvero unita? Io credo che, malgrado tutto, questa
speranza ci sia ancora. Credo che ci debba essere. Perché sarebbe
drammatico rassegnarci fin da ora a due percorsi paralleli e
alternativi, anzi tra loro ostili: uno che guarda all'elettorato Pd,
l'altro che guarda all'Italia dei sommersi e dei senza politica.
Ma
c'è un solo modo di provare a tenere insieme queste due strade: aprire
finalmente un confronto vero: sulle cose. E non sulla fuffa mediatica:
leadership, alleanze, candidature.
In uno
dei pochi passaggi davvero chiari del suo discorso, Giuliano Pisapia ha
detto che è stato un errore sopprimere l'articolo 18: ebbene, partiamo
da lì, e vediamo fin dove si può arrivare. È per questo che lo avevamo
invitato a parlare al Brancaccio (dove non è voluto venire), è per
questo che gli avevamo chiesto di parlare a Santi Apostoli (ricevendo un
diniego). Pazienza, acqua passata: iniziamo da domani, proviamoci senza
rancore.
Lo
so: è evidente che il paternalismo compassionevole di Pisapia, o il
genuino revival (e lo dico con grande rispetto, e simpatia) di Bersani
non bastano a costruire una sinistra nuova. Ma possono invece essere una
parte di una casa comune ben più grande e ambiziosa di quella
presentata a Santi Apostoli
Sarebbe
certo velleitario anche solo pensarlo se lì fosse nato un colosso
autosufficiente. Ma guardiamoci in faccia: il soggetto politico nato il
primo luglio (Insieme, o come si chiamerà), non viene accreditato, nei
sondaggi, per più di un 3-4%.
D'altra
parte, il percorso che è iniziato al Brancaccio ha già ottenuto la
disponibilità di Sinistra Italiana (pesata più o meno per un 3%), di
Rifondazione Comunista (circa all'1%), di Possibile (circa allo 0,6 %) e
di molte altre forze. Non c'è dunque pericolo di alcuna egemonia
prescritta: c'è invece la possibilità che queste formazioni camminino
insieme.
Ma
soprattutto c'è la vitale necessità che queste piccole forze immaginino
se stesse come una parte di una cosa molto più grande. Che esse
accettino, cioè, di costruire una vera alleanza con i cittadini: cioè
con quelle forze civiche che ormai passano alla larga dalla politica e
dalle urne. L'esempio di Padova
ci dice che se questa alleanza funziona, si può superare il 20%: a
patto di cambiare linguaggio, di uscire dall'autoreferenzialità di riti
comprensibili solo ai notisti politici. Ci vuole una politica nuova: un
linguaggio, un forza, un entusiasmo capaci di far ricircolare il sangue
nelle vene di questa povera democrazia in declino: e per capire cosa
intendo si può confrontare il discorso di Pisapia con quello pronunciato qualche giorno fa da Corbyn davanti ai giovani riuniti a Glastonbury.
Per
questo Insieme deve accettare l'idea di partecipare ad un insieme più
grande. E una simile lista civica nazionale di sinistra non può nascere
ponendosi il problema del governo, o dell'alleanza con il centro (leggi
Pd), ma cercando invece di costruire prima di tutto se stessa,
strutturandosi intorno ad alcuni grandi principi fondamentali. Non è
affatto difficile: ricevo molte mail da militanti di Articolo Uno che
chiedono di partecipare alle assemblee che, sul solco del Brancaccio, si
stanno autoconvocando in tutta Italia, ennesimo segno che la base è
molto, ma molto, più unita delle varie dirigenze in campo.
In
conclusione: se la forza battezzata in Piazza Santi Apostoli pensa se
stessa come un punto di arrivo, è finita prima di cominciare.
Può essere invece davvero importante se pensa se stessa come il pezzo di un processo, di un percorso più grande e più largo.
Un percorso vero: senza un destino già scritto, senza leader autoconsacrati e alleanze stabilite a priori.
Un processo che si snodi intorno alla costruzione partecipata di un
progetto culturale, civile e politico la cui bussola siano eguaglianza,
inclusione, partecipazione.
Proviamoci: è questione di umiltà, generosità, lungimiranza, coraggio. E il momento è ora.
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