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Golpisti
stralunati -
Arresi, pentiti, percossi. Umiliati e smarriti prima d’essere arrestati. Così sono
apparsi i militari golpisti assediati dal popolo di Erdoğan solo in alcuni casi
inferocito e armato di bastoni su corpi denudati della dignità prima che delle
divise. Accanto alla scena più assurda del manipolo in mutande e pance da
sergenti pensionandi più che da reparti d’assalto, anche i giovani operativi
visti in azione nell’edificio della tivù di Stato posto sotto assedio per
annunciare l’operazione del sedicente “Comitato della Pace”, avevano volti
incerti e sfuggenti. Altrettanto vaghi apparivano i piloti degli F16 che
puntavano a intimorire la gente di Istanbul con voli radenti e nella capitali
mitragliavano Parlamento e Palazzo presidenziale. Per fare cosa? Anche in
questo caso tutto appariva indeterminato, quasi una prova di colpo di Stato,
che dopo quattro ore rientrava. Di contro il discorso d’un presidente che
pareva in difficoltà e in fuga, lanciato dalla scatolina tecnologica d’uno iPhone
e rimbalzato nel cyberspazio d’un Islam conservatore però connesso, produceva
gli effetti d’un raduno di massa. Una mobilitazione politica prima che
tecnologica, fideistica oltre che patriottica, seppure anche quest’altre
motivazioni abbiano avuto il loro peso in un bel pezzo di nazione che - nonostante
l’incertezza del conflitto interno (coi kurdi), la paura di attentati (del Daesh
e del combattentismo di casa), l’emergenza profughi - riteneva la soluzione
militare non più un porto sicuro. Una posizione espressa anche da tutti gli
oppositori d’un Sultano non amato dai frustrati repubblicani (Chp), dai marginalizzati
nazionalisti (Mhp), dall’opposizione di sinistra (Hdp) arrestata e repressa che
unanimemente ha detto no al naufragio putschista.
Un golpe
per chi? -
E allora ci s’interroga su quali animi avrebbe dovuto smuovere il colpo di mano
dei ribelli in divisa, quale seguito avrebbero potuto avere costoro se alla
chiusura dei ponti sul Bosforo e all’occupazione dei media televisivi a
festeggiare erano soprattutto i rifugiati siriani pro Asad in una Istanbul in
movimento per il fine settimana. Anche il più ferreo fra i generali arrestati,
Erdal Ozturk comandante della Terza armata, quella impegnata e provata dalle
centinaia di sue vittime negli scontri coi guerriglieri del Pkk e autrice della
soffocante, sanguinosa repressione del popolo del sud-est, non è stato in grado
d’imprimere una svolta efficace a un’azione che doveva impedire operatività all’uomo
simbolo della Turchia islamista. I caccia non hanno fermato il volo
presidenziale, ma accanto alle carenze tecniche e tattiche l’intera operazione
è parsa priva di strategia. I golpisti turchi dei tempi andati mettevano forza
ed efficienza a disposizione di quei capi militari che dialogavano su un doppio
terreno: internazionale rivolto allo scudo Nato monitorato dal Pentagono,
interno dialogante con quei movimenti della tradizione presenti nel partito
unico kemalista che hanno sempre avuto nel nazionalismo sfrenato un referente
ideologico. Ma questo nell’esercito turco, trasformato da oltre un decennio di
depurazioni e cooptazioni dei vertici, quasi non esiste più, oppure costituisce
una fetta minoritaria che con le attuali tremila incarcerazioni, e il rischio
di qualche esemplare condanna a morte, verrà ancor più modificato. La
componente securitaria per eccellenza, è poi diventata il partito di governo,
quell’Akp, che quando “vacilla elettoralmente” incamera pur sempre un 40% di
consensi, cosicché può disporre d’un retroterra di pretoriani rappresentati dai
militanti politici. Per ora, in gran parte disarmati, non siamo di fronte a
nulla che fa presumere organismi simili ai ‘Lupi grigi’. Eppure chissà?
Militanza
e milizia -
Il Paese si difende con ogni mezzo contro ogni nemico, cosicché le Istituzioni
possono affiancare ai fedeli poliziotti e agenti del Mıt, anche un’ulteriore
forza di difesa popolare. A questo punto la lettura dietrologica del piccolo
golpe eterodiretto da ‘infiltrati fidati’, che avrebbero soffiato su una smania
di protagonismo del manipolo di generali e ufficiali scontenti, può trovare
sostegno in quell’aria già tarata in partenza dall’incapacità e impossibilità
di quest’ultimi realizzare una mossa che fosse degna d’un qualsiasi progetto. Il
gruppo poteva avere come riferimento l’islamico d’America Gülen, essere da lui
ispirato o prestarsi inconsapevolmente a una manipolazione. In entrambe le
ipotesi ha mostrato solo la volontà di abbaiare senza mordere, ha prestato il
fianco all’autodifesa (o regìa occulta) di un regime. Colui che doveva
diventare bersaglio d’un repulisti “democratico” ha rovesciato il tavolo e con
seimila arresti di militari e magistrati sta compiendo la sua pulizia in difesa
d’una “democrazia” personale. Con essa
può convincere la maggioranza assoluta dei turchi, quella che votando a un
referendum costituzionale, potrebbe raccogliere i 2/3 dei consensi, e
stringersi attorno a lui leader amato e odiato. Il disegno può riuscire perché
l’orizzonte politico, come mostra quest’ultima esibizione para muscolare di
cannoni che non sparano, sembra contare molto più di quello tecnico-militare.
Tale mossa riceve prospettive e coraggio solo se trova leader e programmi da
attivare e attuare. Il paradosso dell’odierna Turchia è che l’unico politico
che può mobilitare un colpo di mano è colui che l’ha subìto. E il golpe
democratico che il Paese potrà conoscere lo sta preparando Erdoğan stesso in
quelle che si preannunciano come le settimane del furore.
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