Fonte: Il ManifestoAutore: Stefano Anastasia
Toccata e fuga. Finalmente, a un anno dalla
formalizzazione della proposta dell’integruppo per la legalizzazione
della cannabis, la Camera ne ha iniziato la discussione. Non è poco, ma
potrebbe anche essere tutto: tutto ciò che questa legislatura e questo
Parlamento si consentiranno di dire su questa annosa e vitale battaglia
di libertà. Non è difficile prevederlo, considerato il clima politico
che si respira nella discesa verso le prossime elezioni politiche e
considerato il fuoco di fila armato dalle destre e dai settori più
conservatori del mondo cattolico.
La sola calendarizzazione della proposta di legalizzazione all’ordine
del giorno dell’assemblea di Montecitorio ha riattivato l’abituale
armamentario proibizionista, condito – come usa – da qualche scienziato
pronto a testimoniare i danni irreparabili che la cannabis produce nei
cervelli dei più giovani, le morti che essa causa quando sia stata
assunta alla guida, ecc. ecc.. Perché, «signora mia che l’ha fumata in
gioventù, le canne di oggi non sono più quelle di una volta», e giù a
sparare percentuali di principio attivo doppie, triple o quadruple di
quelle normalmente sequestrate dalle forze dell’ordine, le quali –
evidentemente – continuano a sequestrate quelle degli anni settanta,
quando la signora e il tossicologo erano giovani.
O come se la legalizzazione della cannabis possa comportare un trattamento di favore rispetto all’alcool, e dunque rendere lecita la guida sotto effetto di sostanze stupefacenti. Tutte sciocchezze, ovviamente.
Legalizzare la cannabis non vuol dire consentire comportamenti a rischio per l’incolumità altrui, ma – al contrario – dismettere la parte più odiosa della guerra alla droga, quella che colpisce i ragazzi delle scuole e che costringe malati e anziani signori a rifornirsi sul mercato illegale per le proprie necessità terapeutiche o di benessere individuale.
1.107.051 persone sono state segnalate ai prefetti dall’entrata in vigore della legge Iervolino-Vassalli per possesso di sostanze stupefacenti a fini di consumo personale. Più di un milione di persone costrette a ramanzine e piccole o grandi vessazioni solo perché trovate in possesso di sostanze palesemente non destinate allo spaccio. Ottocentomila di queste, più del 70% del totale, erano in possesso di cannabinoidi. Che senso ha questo spreco di risorse pubbliche per dissuadere o stigmatizzare un comportamento diffusamente accettato nella popolazione?
Che senso ha l’impiego delle ancor più costose risorse della giustizia penale, dall’uso delle forze di polizia a quello del delicato marchingegno processuale, per la repressione di un mercato che può essere regolato per legge?
Giustamente la Direzione Nazionale Antimafia invoca una disciplina che possa limitare il potere di mercato delle organizzazioni criminali e liberare risorse investigative e processuali per perseguire comportamenti ben più gravi.
A settembre, dunque, se ne tornerà a discutere in Parlamento. E si vedrà cosa ne sarà. Certo è che le associazioni, i consumatori, le persone ragionevoli e di buona volontà non possono restare fino ad allora con le mani in mano, per poi lasciare alla cabala delle relazioni nella maggioranza o tra la maggioranza e le opposizioni la chiusura della partita. Ecco allora che a settembre sarà utile far arrivare in Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dai radicali, dall’associazione Luca Coscioni e da numerose associazioni, corredata da centinaia di migliaia di firme, per dar forza all’impegno dell’intergruppo antiproibizionista e lasciare la porta aperta alla speranza di un cambio di politiche sulle droghe nel segno delle libertà e dei diritti civili.
O come se la legalizzazione della cannabis possa comportare un trattamento di favore rispetto all’alcool, e dunque rendere lecita la guida sotto effetto di sostanze stupefacenti. Tutte sciocchezze, ovviamente.
Legalizzare la cannabis non vuol dire consentire comportamenti a rischio per l’incolumità altrui, ma – al contrario – dismettere la parte più odiosa della guerra alla droga, quella che colpisce i ragazzi delle scuole e che costringe malati e anziani signori a rifornirsi sul mercato illegale per le proprie necessità terapeutiche o di benessere individuale.
1.107.051 persone sono state segnalate ai prefetti dall’entrata in vigore della legge Iervolino-Vassalli per possesso di sostanze stupefacenti a fini di consumo personale. Più di un milione di persone costrette a ramanzine e piccole o grandi vessazioni solo perché trovate in possesso di sostanze palesemente non destinate allo spaccio. Ottocentomila di queste, più del 70% del totale, erano in possesso di cannabinoidi. Che senso ha questo spreco di risorse pubbliche per dissuadere o stigmatizzare un comportamento diffusamente accettato nella popolazione?
Che senso ha l’impiego delle ancor più costose risorse della giustizia penale, dall’uso delle forze di polizia a quello del delicato marchingegno processuale, per la repressione di un mercato che può essere regolato per legge?
Giustamente la Direzione Nazionale Antimafia invoca una disciplina che possa limitare il potere di mercato delle organizzazioni criminali e liberare risorse investigative e processuali per perseguire comportamenti ben più gravi.
A settembre, dunque, se ne tornerà a discutere in Parlamento. E si vedrà cosa ne sarà. Certo è che le associazioni, i consumatori, le persone ragionevoli e di buona volontà non possono restare fino ad allora con le mani in mano, per poi lasciare alla cabala delle relazioni nella maggioranza o tra la maggioranza e le opposizioni la chiusura della partita. Ecco allora che a settembre sarà utile far arrivare in Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dai radicali, dall’associazione Luca Coscioni e da numerose associazioni, corredata da centinaia di migliaia di firme, per dar forza all’impegno dell’intergruppo antiproibizionista e lasciare la porta aperta alla speranza di un cambio di politiche sulle droghe nel segno delle libertà e dei diritti civili.
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