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E’ stato un lampo, non la luce agognata, a
portarsi via decine di afghani d’etnìa hazara. Venivano in gran parte dalla
provincia di Bamyan e protestavano contro il governo che aveva cambiato il
tragitto della linea d’alta tensione progettata dall’impresa Tutap che
coinvolge ben cinque nazioni (Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, Afghanistan
e Pakistan). Una mega impresa, fra le poche che forniscono servizi alle
comunità, finanziata da una grande banca asiatica (Asian Development Bank). Gli
hazara di fede sciita, da sempre poco amati dalla maggioranza pashtun
totalmente sunniti, si vedevano penalizzati perché il progetto li tagliava fuori
dal percorso, mutando un’iniziale direttrice. Così avevano marciato in
migliaia, sfidando l’aria che da oltre due anni tira nel Paese diventato
ovunque, capitale compresa, territorio off limits per tutti. Nessun militare
del Resolute support, dell’esercito
di Ghani, e neppure certi signori della guerra suoi alleati, riesce a
controllare quasi nulla del territorio. Ci vivono ma possono essere colpiti.
Per le presenze occulte, mirare ai manifestanti è stato fin troppo facile.
Hanno usato kamikaze nascosti sotto dei burqa che si mescolavano ai
partecipanti, come le donne celate sotto il velo integrale che passavano per
via.
Nessuno ha voluto controllarle nonostante il
punto d’arrivo della marcia si trovasse in una zona centrale di Kabul, Deh
Mazang circle. Il castigo è stato tremendo: all’ospedale di Emergency di Kabul sono
giunti oltre duecento feriti, molti in condizioni disperate, mentre nella
piazza si contavano ottanta corpi maciullati. L’attentato risulta sanguinosissimo
come non se ne vedevano da tempo e sarebbe potuto essere ancor più devastante
perché la cintura d’un terzo kamikaze non è esplosa, circostanza che fa pensare
a una preparazione non professionale degli ordigni. La determinazione stragista
era, però, elevatissima e indica il desiderio d’imporsi nella strategia del
terrore riapparsa pesantemente in ogni provincia afghana. Dietro le bombe, secondo
quanto ha divulgato la Bbc, ci
sarebbe un gruppo legato all’Isis che vuol introdurre anche nel disastrato territorio
afghano quei massacri diffusi e inaspettati di civili come sta facendo in
Pakistan. I talebani locali hanno preso le distanze e condannato l’azione. Ma
il Daesh da circa due anni cerca adepti e alleanze in tutta l’area e l’ha
trovata in alcuni dissidenti dalla linea unitaria dei Talib. Rinata non tanto
con l’elezione di Mansour (avvenuta un anno fa e durata pochi mesi poiché a primavera
il neo leader è caduto vittima d’un drone), ma dal suo rimpiazzo con
Haibatullah.
Questi è un mullah vicino alla Shura
di Quetta, benvisto anche da un fondamentalista doc come l’integerrimo Sirajuddin
Haqqani. Eppure le emanazioni di Al Baghdadi continuano a farsi sotto, hanno
iniziato ad agire nel territorio cuscinetto delle Fata, le aree tribali fra
Afghanistan e Pakistan dove ogni clan talebano ha una presenza stanziale o
passeggera. Hanno puntato sulla dissidenza dei Tehreek-e Taliban da due anni
attivi e cattivissimi nel vendicare colpo su colpo la guerra che gli conducono
i due Sharif di Islamabad, bombardando i villaggi del Waziristan, zona di
provenienza di questo gruppo talebano. Insomma hanno cercato d’infilarsi nelle
crepe che si erano create dopo la morte del mullah Omar (2013) tenuta a lungo
nascosta, ma deleteria per le direttive da dare al movimento. Secondo le indicazioni
di Al Baghdadi puntano anche al grande Medio Oriente e hanno cercato d’inserirsi
nei distretti centro occidentali di Farah ed Helmand uccidendo decine di
talebani. Verso i civili usavano il doppio gioco del terrore con esecuzioni
clamorose, come quelle effettuate con esplosivo attaccato alle teste dei
malcapitati che non volevano farsi reclutare e le lusinghe di salari mensili di
almeno 500 dollari (quanto guadagna un soldato dell’esercito di Ghani) per chi
li avesse seguiti.
In quelle province non gli
è andata bene, i turbanti locali li hanno respinti, ma nel distretto di
Nangarhar, non lontano da Kabul, hanno stabilito una solida testa di ponte,
tanto che i vertici talebani preoccupati del fenomeno oltre un anno fa hanno
organizzato un reparto speciale d’un migliaio di esperti e fidatissimi
miliziani pronti a colpirli nelle enclavi frequentate. Alcuni scontri ci sono stati
con perdite reciproche, ciò che prosegue è una lotta a distanza, dove gli
stessi attentati, come quello di ieri e altri realizzati in Pakistan, hanno una
tragica funzione di propaganda. La partita è violentissima e non esclude alcun
colpo, come del resto le reciproche accuse. L’Isis afghano afferma fra l’altro
che i talib proteggano gli infedeli, come il wahabbismo considera i credenti
sciiti oppure che siano solidali coi talebani dei territori pakistani che
sarebbero infiltrati e diretti dall’Intelligence locale. Insomma una campagna
senza quartiere che, unisce alla visione islamica differente anche obiettivi di
medio e lungo termine diversi. Come Qaeda l’Isis mostra una visione panislamica
e agisce su un ampio orizzonte internazionale combattendo gli infedeli ovunque
per creare un grande Califfato; i talebani mostrano una visione locale:
vogliono liberare la terra natìa dall’occupazione occidentale Nato e abbattere
il governo servile di Kabul. Nei loro piani strategici rivolti contro
l’imperialismo occidentale e il nemico e concorrente sunnita versione Al
Baghdadi hanno avviato informali ma sostanziali incontri diplomatici coi
rappresentati di Iran, Russia e Cina. L’opera d’un governo ombra che conta più
di quello fantoccio sostenuto da Washington.
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