Parla, per la prima volta, il militare che ha denunciato i pestaggi dei colleghi su Stefano. E accusa esponenti dell'Arma: «Adesso subisco pressioni e soprusi».
L'Espresso di Giovanni TizianQuattordici maggio 2015. Una data spartiacque per l’appuntato scelto dei carabinieri Riccardo Casamassima. È uno dei pochi a conoscere la verità sul caso Cucchi. Dopo una notte insonne, a valutare conseguenze e possibili ripercussioni, il caffè scioglie gli ultimi dubbi e le insicurezze della sera prima. Si veste ed esce di casa per incontrare Fabio Anselmo, l’avvocato di Stefano Cucchi. Con lui c’è la convivente, anche lei nell’Arma. E come lui a conoscenza di alcuni segreti sulla morte del geometra romano, fermato da una pattuglia il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto sei giorni dopo all’ospedale Pertini di Roma. Casamassima ha 38 anni, indossa la divisa da quando ne ha 19.
Bussa alla porta di Anselmo, dunque. Lì confessa per la prima volta ciò di cui era venuto a conoscenza. Ma è necessario un passo ulteriore per formalizzare le accuse. Perciò il 30 giugno del 2015 lo convoca il pm Giovanni Musarò, che coordina l’indagine bis sul trentenne pestato selvaggiamente da uomini in divisa. La prima inchiesta ha portato a un nulla di fatto. Tutti assolti gli agenti penitenziari. E l’appello bis concluso la settimana scorsa ha scagionato i medici del Pertini. Insomma, trascorsi sette anni ancora nessun colpevole. L’enigma da risolvere è scritto nelle motivazioni che giudici di Cassazione e di Appello hanno prodotto negli anni: Stefano Cucchi è stato, senza dubbio, picchiato. Per questo, come sostiene la Suprema corte, sarà necessario ripartire dalle testimonianze che fornivano più di qualche indizio su picchiatori vestiti da carabinieri. Da questo dato di fatto è ripartita la procura guidata da Giuseppe Pignatone per aprire il nuovo fascicolo. Certo, né la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, né l’avvocato della famiglia, né i pm, potevano immaginare di poter contare su un teste commilitone dei presunti autori del pestaggio. Militare che sostiene di aver ricevuto le confidenze del superiore- il maresciallo Roberto Mandolini- dei presunti colpevoli. Il maresciallo è uno dei cinque indagati. A lui e a Vincenzo Nicolardi viene contestato il reato di falsa testimonianza. Per gli altri tre - Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco - i pm ipotizzano il reato di lesioni. Accusa che potrebbe mutare all’esito dell’incidente probatorio, se la nuova perizia dovesse stabilire che Cucchi è morto a causa dei pugni e dei calci ricevuti.Tra il 2008 e il 2010 Casamassima era in forza al comando di Tor Vergata. Proprio da qui era stato trasferito Mandolini con destinazione caserma Appia, la stessa da cui partiranno gli agenti per arrestare Stefano. Un mese dopo il trasferimento, Mandolini, tornò nella sua vecchia “casa” ufficialmente a salutare il comandante. Tuttavia, stando al racconto dell’appuntato, il passaggio a Tor Vergata non era un gesto di cortesia: piuttosto era dovuto a questioni più urgenti e “critiche”. «Quando lo vidi nella caserma lui si mise una mano sulla fronte, poi esclamò: “È successo un casino i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato”», conferma a “l’Espresso” quanto già messo a verbale in procura. «Dopo di che si recò a passo spedito verso l’ufficio del comandante della stazione, il maresciallo Enrico Mastronardi», prosegue Casamassima. E qui avrebbe confessato “il casino” al superiore, indicando il nome del ragazzo pestato dai colleghi.
A sentire quelle parole, e il cognome Cucchi, è stata la convivente dell’appuntato. Insieme hanno deciso di denunciare. La donna si trovava nella stanza prima che Mandolini entrasse. E mentre si dirigeva verso l’uscita il maresciallo aveva iniziato già a parlare. Non si ricorda il giorno esatto della visita, l’appuntato. Ma di una cosa è certo: «Cucchi era ancora vivo». Riferisce, inoltre, dell’incontro avuto con il figlio di Mastronardi, anche lui nell’Arma. «Mi disse di aver visto Cucchi la sera dell’arresto, e di aver constatato che era ridotto male a causa delle botte ricevute dai colleghi del comando Appia. Disse: non puoi capire come me l’hanno portato, era messo proprio male». Mastronardi junior, però, sentito dai magistrati non ricorda di aver pronunciato quelle parole, ma non esclude di aver sentito voci di caserma sul fatto: «Non posso escludere di aver partecipato ad una conversazione fra colleghi nella quale si diceva che Cucchi avesse subito un pestaggio dai colleghi di Roma Appia, ma in questo momento non ricordo bene».
Il racconto di Casamassima troverebbe conferma anche nella testimonianza, agli atti dell’inchiesta, del militare, Stefano Mollica, che ha accompagnato Cucchi in tribunale: «Come ho già riferito in precedenza, il gonfiore del viso di Stefano Cucchi faceva impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia».
Perché Casamassima ha deciso di parlare solo ora? A distanza di anni? «Non ho più seguito il caso Cucchi e solo pochi mesi fa, essendo in convalescenza, ho visto in televisione la sorella di Stefano Cucchi. In quel momento ho trovato la forza di dire tutto ciò che sapevo».
L’appuntato ai magistrati ha anche indicato una chiave di lettura sui trasferimenti di alcuni colleghi all’interno dell’Arma. Sostiene che esistono trasferimenti premio e altri punitivi. Nel caso di Mandolini, per esempio, il suo spostamento al battaglione Tor di Quinto rientrerebbe nella seconda categoria: «Il battaglione e la Compagna speciale sono reparti con tanti colleghi che hanno problemi con la giustizia. E Mandolini non aveva neppure i requisiti per fare domanda, non aveva per esempio meno di 35 anni, per questo deduco che è stato un trasferimento d’ufficio, cioè punitivo».
Anche Casamassima è stato trasferito. Il paradosso, però, è che i vertici l’hanno mandato nello stesso ufficio del maresciallo Mandolini. Ora convivono, denunciante e denunciato. Ciò che preoccupa di più il militare, però, è la distanza, 45 chilometri, che deve percorrere ogni giorno. Per questo ha tentato di chiedere il trasferimento sfruttando la legge sul ricongiungimento famigliare. La richiesta è partita dopo la notizia della sua testimonianza in procura. L’appuntato ha due figli e una compagna che vivono appena fuori Roma. Ne avrebbe diritto, ci spiega durante l’incontro. Niente da fare, però: «La domanda per riavvicinarmi a casa è stata approvata da tutti gli ufficiali territoriali, poi una volta arrivata al comando generale è stata respinta».
Ma i guai per l’appuntato iniziano ben prima della denuncia sul caso Cucchi. Nel 2014 ha presentato una denuncia dettagliata, letta da “l’Espresso”, alla procura militare. Una relazione con nomi e cognomi di chi tra i suoi colleghi dell’ultima stazione avrebbe superato lo steccato di ciò che è lecito. Con dovizia di particolari indica militari assenteisti, altri che gestirebbero aziende intestate alle mogli, altri ancora in affari con Onlus. Racconta persino di “buste” con soldi. La denuncia è ferma sul tavolo degli inquirenti da due anni. Un fascicolo è stato aperto, ma per ora, senza alcuno sviluppo.
Intanto lui sta affrontando un processo al tribunale di Roma, per una serie di omissioni nella gestione degli informatori. Già, perché, come ripete spesso, è uno “sbirro” di strada. Ha condotto numerose operazioni. Lavorava soprattutto con informatori. Fonti sempre borderline. Tra i suoi contatti anche personaggi di calibro del milieu delle borgate romane. Questo è l’argomento che i suoi nemici usano più spesso: «Ma chi? Casamassima? Ha solo voglia di vendicarsi», racconta. Eppure per i pm di Roma il suo racconto è credibile. A loro nell’estate 2015 confessava: «Avrei preferito tenere fuori la mia donna, temo forti ripercussioni all’interno dell’Arma».
Un anno dopo queste ultime parole si ritrova a lavorare con il collega che avrebbe coperto il pestaggio di Cucchi, lontano dalla famiglia e con un procedimento disciplinare aperto successivamente alla testimonianza, per un vecchio danno all’auto di servizio. Per questo si appella al comandante generale Tullio Del Sette: «Lo ritengo un militare scrupoloso e capace. Vorrei solo che lui ascoltasse le nostre ragioni».
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