lunedì 18 luglio 2016

Colpo di stato. Hobsbawm risponde a Luttwak.

Fin dai tempi di Machiavelli molti acuti osservatori si sono serviti di uno tra i più efficaci mezzi stilistici tipici del realismo: porre in contrasto la concreta realtà politica da una parte, e la sua interpretazione ufficiale dall’altra.
epa04226530 A Thai anti-coup protester holds a banner in front of soldiers guarding a street during a rally against the military junta at the Victory Monument in Bangkok, Thailand, 26 May 2014. Thai army chief General Prayuth Chan-ocha received a royal endorsement as junta head but gave no indication of when civilian rule would be restored. The army chief seized power in a coup on 22 May 2014, saying the move was necessary to restore peace and order and end the country's political impasse.  EPA/RUNGROJ YONGRITÈ uno strumento efficace per tre ragioni: perché è molto semplice da usare (non servono che i propri occhi), perché la realtà politica è notoriamente in contrasto con la retorica moraleggiante costituzionale e legalistica di cui la si ammanta, e perché, strano a dirsi, l’opinione pubblica è ancora pronta a stupirsi quando quest’ultimo punto viene messo in rilievo. Luttwak è senz’altro un commentatore intelligente e ben informato; ma si può sospettare ch’egli, come già Machiavelli, ami tanto la verità non solo perché è vera, ma anche perché non manca mai di scandalizzare l’ingenuo. Perciò ha proposto al pubblico il suo acutissimo opuscolo sul colpo di stato come un manuale per aspiranti golpisti.
Ciò da un lato è una disdetta, perché distoglie l’attenzione dai veri motivi d’interesse che presenta questo suo lavoro e, in qualche misura, pregiudica le sue stesse argomentazioni. Se è indubbio che verrà adoperato nei corsi organizzati dalla CIA o da altre organizzazioni interessate a veloci ed efficaci rovesciamenti di governi sgraditi, non insegnerà nulla che già non sappiano – fatta eccezione, forse, per qualche dritta di ordine pratico – ai veri esperti del campo. Categoria, quest’ultima, che in molti Paesi comprende ogni ufficiale di polizia e forze armate, dai tenenti in su. I cospiratori con velleità letterarie non mancheranno di apprezzare la concisa, dissacrante e divertentissima analisi portata avanti dall’Autore dei diversi tipi di comunicato con cui annunciare alla Patria la salvezza prossima ventura. Ma se quanto dice Luttwak può scioccare un londinese o un americano di Washington, è moneta corrente in città come Buenos Aires, Damasco o anche Parigi, dove l’apparizione di blindati ai crocicchi delle strade è esperienza quotidiana. I più probabili candidati a effettuare un colpo di stato, di certo non hanno bisogno delle dritte di Luttwak.
E chi sono costoro?
L’espressione colpo di stato indica chiaramente, e l’Autore lo sa, che appartengono a un gruppo ristretto, dal momento che i golpe sono effettuati sempre ed esclusivamente da forze armate. Questo fatto impone limiti di ordine politico e tecnico che escludono la quasi totalità di noi tutti. Checché ne dica Luttwak, i colpi di stato non sono politicamente neutri. Per quanto gli ufficiali militari – e, dunque, i golpe – possano saltuariamente favorire forze di sinistra, le circostanze in cui ciò avviene sono relativamente rare, anche nei Paesi sottosviluppati. Sfortunatamente l’Autore omette di discutere simili condizioni. Generalmente, lo sfondo ideologico tanto dei militari quanto dei colpi di stato tende verso l’opposto. Il cosiddetto bonapartismo è di solito uno slittamento politico in senso conservatore o, nella migliore delle ipotesi, un’autoaffermazione corporativa delle forze armate come gruppo di pressione nel contesto di generale mantenimento dello status quo.
I regimi che puntano a un cambiamento rivoluzionario della società, profondamente consapevoli di tutto ciò fin dai tempi di Napoleone I, sono sempre stati (almeno fino a Mao Tse-Tung) i più strenui difensori del primato della società civile nelle rivoluzioni e, più in generale, in politica. E lo sono stati al punto di sacrificare a questo principio la costante popolarità dei generali vittoriosi, alla quale persino le elezioni americane non hanno mancato di pagare a lungo il loro tributo. L’esercito, nel modello classico delle rivoluzioni sociali, ha sempre avuto un ruolo negativo: al momento decisivo, avrebbe dovuto rifiutare obbedienza al vecchio regime e, preferibilmente, disperdersi. Le forze di sinistra che ripongono fiducia in ambienti militari progressisti (come nella Cuba del giovane Batista, e in Brasile fino al 1964) hanno finito generalmente per rimanere deluse, anzi che no. Anche i più genuini eserciti “rossi” non hanno mancato di destare diffidenza. Quando i regimi rivoluzionari hanno avuto bisogno di condottieri, hanno preferito generalmente mettere un uniforme indosso a capipartito civili.
Il limite tecnico che deve affrontare un aspirante organizzatore di golpe è che relativamente poche persone possono sobillare gli ufficiali necessari; del resto, i sottufficiali sono meno promettenti e la rivolta della truppa significa rivoluzione, non colpo di stato. Gli unici civili in grado di far muovere gli ufficiali sono, in genere, quelli già al governo – che sia un governo sovrano o instaurato da potenze e multinazionali straniere, poco importa. A costoro, l’organizzazione di un colpo di stato può riuscire relativamente semplice e portare a buoni risultati, e forse per questo il processo in sé riesce poco interessante agli occhi di Luttwak, per quanto sia quello più corrente nell’attuazione di golpe. Inoltre, naturalmente, offre poche prospettive di ordine pratico al golpista fai da te che non abbia già tra le mani le leve del potere.
Tutti gli altri, come l’Autore dimostra in maniera convincente, devono poter contare sulla più ferrea collaborazione delle loro potenziali reclute, anche qualora queste si rifiutino di unirsi a lui. Il modo migliore per assicurarsela è: a) essere un ufficiale e b) essere legato agli altri cospiratori da forti legami emotivi quali l’appartenenza a una stessa famiglia, tribù, setta (preferibilmente minoritaria), fratellanza rituale… o il cameratismo per la comune appartenenza a un reggimento, un’accademia militare, un’associazione o anche un’ideologia. Naturalmente, in Paesi con una lunga tradizione di colpi di stato tutti gli ufficiali tenderanno a considerare i propri piani come potenzialmente efficaci e saranno perciò restii a condividerli con i colleghi. Una volta sancito, come nell’antico pronunciamento spagnolo, tra il tacito accordo di non penalizzare eccessivamente la fazione perdente (che un giorno, del resto, in un futuro golpe potrebbe ritrovarsi dalla parte giusta di un futuro golpe) l’alea comportata da una simile impresa diminuisce sensibilmente.
Ma anche così, il numero dei candidati all’attuazione di un colpo di stato vincente è comparabile a quello di chi ha la prospettiva di divenire un grande banchiere. Gli altri farebbero bene a dedicarsi ad altri tipi di attività politica.
Ma se possiamo mettere da parte Strategia del colpo di stato: manuale pratico [Coup d’État: A Practical Handbook, Harvard 1968] come manuale per cospiratori, ne possiamo tuttavia apprezzare il contributo allo studio delle strutture del potere politico. Un golpe è un gioco con tre attori (escludiamo per il momento il ruolo attivo di un’eventuale potenza o multinazionale straniera). Questi attori sono: le forze armate che possono effettuarlo, i politici e la burocrazia la cui disposizione ad accettarlo è requisito fondamentale alla sua riuscita, e le forze politiche, più o meno ufficiali, che possono segnarne il trionfo o la rovina. Perché il successo di un colpo di stato dipende essenzialmente sulla passività dell’apparato statale e del popolo. Se uno dei due, o entrambi, oppongono resistenza, l’impresa può ancora riuscire, ma non come golpe: il regime franchista, per esempio, ha fallito il putsch militare, ma ha vinto dopo una guerra civile. Luttwak ha da dire cose molto interessanti riguardo ai tre attori appena elencati.
È in forma soprattutto quando parla di militari professionisti, adepti di quella curiosa setta esoterica che ha così poca dimestichezza con il mondo civile e lavora secondo criteri così diversi da quello. Il soldato di leva, coscritto o ufficiale, o anche il poliziotto, sia pure armato pesantemente tende a pensare e reagire in modi affini a quei civili tra i quali prima o poi tornerà o abitualmente opera anche da militare. Separati dal resto della società da uno stile di vita fatto (in tempo di pace) di uniformi, istruzione e addestramento, gioco e noia, organizzato secondo il criterio fondamentale che chi lo adotta è fondamentalmente uno stupido manipolabile a piacimento, e saldato dai sempre più anacronistici valori di coraggio, onore, disprezzo e sospetto nei confronti dei civili, i militari professionisti tendono quasi per definizione all’eccentricità ideologica.
Come Luttwak ci rammenta correttamente, le posizioni politiche dei corpi di ufficiali sono spesso piuttosto diverse da quelle dei loro padroni civili, maggiormente improntate come sono a concezioni più reazionarie e romantiche. Questi elementi, però, sono anche meno usi ad affrontare situazioni inusuali per le quali non sono addestrati, e cercano perciò di assimilarle al già visto e esperito. Come l’Autore non manca di rilevare, uno dei modi più comuni per compiere simile operazione è di ricondurre i datti e le situazioni inedite a un disordine dovuto all’incapacità dei politici. La situazione dell’ufficiale professionista è, in effetti, paradossale: in lui s’incontrano potere collettivo e irrilevanza personale. Dopo trentacinque anni [l’articolo è del 21 agosto 1969 NdR] la Germania non si è ancora ripresa dal trasferimento di qualche centinaio di scienziati in laboratori e università straniere; invece, spesso e volentieri l’efficienza degli eserciti ha tratto beneficio da emigrazioni, espulsioni o altri tipi di epurazione di ufficiali anziani; così spesso che si è tentati di pensare che poche guerre possano essere vinte senza prima purgare i vertici militari. Ma il potere politico degli scienziati è trascurabile mentre, con alcune circostanze favorevoli, una mezza dozzina di colonnelli può rovesciare un governo.
Sulle burocrazie si è scritto di più e la maggior parte di noi ha con esse una maggiore dimestichezza, di modo che le considerazioni di Luttwak apporteranno alla maggioranza dei lettori più il piacere del riconoscimento, che quello dell’illuminazione. Del resto, è opportuno mettere in rilievo due sue interessanti considerazioni. In primo luogo, gli unici metodi che sono stati escogitati per arginare la tendenza incontrollata delle burocrazie, pubbliche o private, a espandersi indefinitamente, sono a loro volta burocratici. Uno di questi metodi consiste nell’allestire un settore  “che soddisfi i propri istinti opponendo resistenza alla crescita di tutte le altre strutture burocratiche”, ruolo giocato di solito dalla burocrazia finanziaria; un altro si basa sul principio che ogni settore detentore di ampi poteri tenda a tenere sotto controllo i rami concorrenti.
La seconda osservazione è quella secondo cui le burocrazie sono fondamentalmente istituzioni hobbesiane su cui non si può contare per la difesa dell’ordine vigente, una volta che ne sospettino la prossima rovina e l’instaurazione di un nuovo regime. Questo vale per la polizia come per ogni altro settore dell’apparato statale, a patto che sia dotato di specifici poteri e influenza. A Luttwak, però, sfugge che tutto questo non fa di simili apparati degli elementi politicamente neutri. Né l’esercito né la polizia opposero resistenza all’abbattimento del fascismo in Italia, ma come mostrano i recenti avvenimenti in quel Paese, la persistenza dell’apparato burocratico risalente al periodo fascista, rende quasi impossibile la soluzione di alcuni concreti problemi politici. L’osservazione marxiana che le rivoluzioni non possono limitarsi a “prendere possesso della macchina statale bell’e pronta e piegarla ai suoi propositi”, per quanto possa sembrare invitante farlo, è più attuale oggi che nel 1872  quando fu formulata.
Finalmente, i commenti di Luttwak su movimenti e organizzazioni politiche sono originali e istruttivi. Essenzialmente, sostiene, bisogna distinguere tra movimenti pronti alla vera azione e quelli che si limitano a azioni simboliche e dimostrative, come l’organizzazione di elezioni, i rituali della vita e dei negozi pubblici, o le discussioni politiche. Di fronte a un colpo di stato, il Partito laburista (sicuramente) e il Trade Union Congress (quasi sicuramente) non farebbero nulla, mentre l’Unione nazionale degli studenti potrebbe scendere in piazza, pur senza concludere nulla. D’altra parte, invece, non si potrebbe contare sulla passività del maggiore sindacato italiano, legato al Partito comunista, e con una lunga tradizione di scioperi politici e, ciò che è più importante, di lotta di liberazione antifascista attraverso mobilitazioni di massa. Così come non si potrebbe contare su quella di partiti rivoluzionari, per quanto molti di essi si sono trasformati a loro volta, con il tempo, in apparati burocratici che dispensano favori e lavori; in maniera simile a quanto può accadere ad alcuni partiti comunisti la cui capacità di azione e rapida mobilitazione potrebbe essere stata atrofizzata da lunghi periodi di stabilità politica. Da ultimo, i partiti rivoluzionari subiscono anche gli svantaggi di una struttura fortemente centralizzata: una volta decapitati, perdono velocemente e drasticamente la loro efficienza.
Nella misura in cui si tratta del caso particolare dei colpi di stato, la distinzione tra movimenti politici che si mobilitano e quelli che non lo fanno è sufficiente, dal momento che nell’eventualità più favorevole un golpe può essere sventato da ogni segno di resistenza organizzata che mette subito in luce i punti deboli della scalata al potere, dando così la possibilità al resto dell’apparato militare e civile di decidere che non è necessario passare dalla parte dei golpisti. Anche in situazioni molto meno favorevoli, del resto, si può opporre un’efficace resistenza a un nuovo regime, con fondamenta ancora deboli e malsicure. Ma le considerazioni di Luttwak presentano altre e più importanti ragioni d’interesse. Viviamo in un periodo in cui diverse forme di azione politica diretta stanno tornando ad acquisire rilevanza nei Paesi sviluppati. Qui, tanto le dottrine politiche comunemente accettate quanto la dimestichezza delle persone con la sfera pubblica escludono l’uso di strumenti extra-legali di potere. I vecchi hanno dimenticato che i governi possono essere rovesciati, o hanno rimosso psicologicamente questa eventualità, i giovani al contrario sono convinti di poterlo fare, ma non sanno come muoversi. In simili circostanze, ogni libro che dia ragguagli tecnici sui modi per appropriarsi il potere riesce subito interessante.
L’opuscolo di Luttwak può dunque essere di immensa utilità per aggiornare l’educazione politica di tutte le fasce d’età. Gli studenti di relazioni internazionali, e specialmente quelli che si occupano di Medio Oriente (ai quali l’Autore riserva grandi attenzioni), avranno modo di apprezzare anche le informazioni qui contenute. Il libretto si legge con piacere per il suo stile asciutto e soprattutto perché Luttwak dimostra che i grandi problemi possono essere trattati in maniera adeguata in volumi agili, a patto che chi scrive usi le parole per esprimere pensieri e non come loro sostituti.

Titolo originale: How to Plot Your Takeover (21 agosto 1969)
traduzione a cura di Koba

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