lunedì 18 luglio 2016

Classe Operaia. Sfruttamento selvaggio, ora gli 'schiavi' d'Italia dicono basta.

Non solo Rosarno. Dalla pianura pontina al distretto 
del pomodoro in Puglia sfruttamento, ghetti e zero sicurezza riguardano 400 mila lavoratori. Che finalmente denunciano.

L'Espresso di Floriana Bulfon e Francesca Sironi
Sfruttamento selvaggio, ora gli 'schiavi' d'Italia dicono basta Picchia il sole su 400mila lavoratori impiegati senza tutele a raccogliere casse di pomodori e ceste di meloni, fino alle uve d’autunno. La cifra è fornita da ll’osservatorio della Cgil sul caporalato. In inverno erano a Rosarno o Ginosa per gli agrumi. Con l’estate si trovano a Foggia come a Nardò, come in qualche località della Campania.

Altro raccolto, altra schiavitù. Perché nonostante leggi, programmi e promesse, lo sfruttamento nei campi continua. Assume nuove forme, indossa maschere semi-legali: intermediazione, contratti a ore, aziende fantasma. Riceve fondi europei. Conta sulla mancanza di controlli. E non arretra. E oggi all’emergenza “storica” (in Calabria è da otto anni che le associazioni parlano di schiavitù, in Puglia la prima rivolta dei braccianti risale al 2011) se ne aggiunge una nuova.
Nei centri d’accoglienza per i richiedenti asilo sono registrati 111mila migranti. Arrivano da Pakistan, Nigeria, Gambia, Senegal, Mali. Erano 33 mila in meno un anno fa. Nella tendopoli di San Ferdinando, dove un carabiniere ha ucciso, sparando, un ragazzo che lo minacciava con un coltello, il 33 per cento dei 471 stagionali curati da “Medici per i diritti umani” era un “diniegato”, un esule cioè in attesa di ricorso in tribunale. Più della metà aveva in tasca un permesso di protezione internazionale.
Il 10 maggio da un’inchiesta della Digos di Prato sono stati indagati 12 pakistani: per la vendemmia di cinque aziende del Chianti - “Chianti classico”, docg e “gran riserva” - facevano il giro dei centri d’accoglienza. Caricavano su van dai vetri oscurati i profughi - cento, almeno, quelli coinvolti - per pagarli da quattro a sei euro l’ora, contro i 9 del contratto nazionale. Al telefono li chiamavano «questi schiavi negri e stronzi». Sono stati perquisiti anche tre italiani: consulenti del lavoro di Prato, fornivano false buste paga e documenti. Fra quelle vigne mancavano ispezioni, prima della denuncia da cui è partita l’indagine, aiutata dal direttore della cooperativa che ospitava i rifugiati e che si era accorto che qualcosa non andava.


Del resto sui campi, quando arrivano i controlli, arrivano anche le sanzioni: nelle 8.862 aziende agricole ispezionate dalle autorità nel 2015 sono stati intercettati 6.153 irregolari e 3.629 braccianti totalmente in nero. Impiegati secondo l’antica prassi di ricatti, rimborsi per il “viaggio” dovuti ai caporali, ghetti, nessuna sicurezza. Fino alla fame: meno di un mese fa i carabinieri hanno arrestato nel brindisino una madre e suo figlio. Italiani, portavano, secondo l’accusa, i braccianti fino nel barese, stipati in furgoncini; se non c’era posto, li chiudevano nel bagagliaio. «Non mangio da giorni», diceva disperata una di loro.
UN POMODORO DI QUALITA'
«Ho provato vergogna. Qui mancano i diritti e non è riconosciuta la dignità». Così Camilla Fabbri, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, commentava il 24 maggio l’ispezione appena terminata nella cooperativa “Centro Lazio”, nella pianura pontina. In quattro ore di controlli i Carabinieri di Latina e gli agenti dei Nuclei Antisofisticazioni e Sanità hanno trovato nelle serre braccianti “in regola” per 12 giorni al mese quando ne lavoravano 20, per paghe da meno di quattro euro l’ora e turni da dodici ore al giorno.

Raccoglievano in queste condizioni pomodori e zucchine “di alta qualità”, come pubblicizza il sito dell’azienda, che ha chiuso il bilancio del 2014 con un fatturato di 14 milioni di euro. La “Centro Lazio” ha ricevuto negli ultimi tre anni un milione e 440mila euro di fondi agricoli europei: 304mila nel 2013, altri 600 nel 2014 e 536mila l’anno scorso. Rappresentante dell’impresa è Fiorella Campa, che con la sorella Stefania (anche lei socia della cooperativa) era già stata denunciata nel 1994 per sfruttamento, riporta l’archivio dell’Agi. Il padre, Luigi, «tuttora impegnato a sostenere le figlie con una presenza costante e vigile sul campo», come si legge in un’intervista con cui le sorelle presentano i loro progetti per diventare «un colosso dell’ortofrutta», era stato arrestato nel gennaio del 1993 con l’accusa di occultamento di cadavere e violazione della legge sugli stranieri. Secondo un giovane impegnato nei campi l’amico di 31 anni si era sentito male dopo aver mangiato, ed era morto. «Se lo trovano qui succede un macello», avrebbe detto il padrone: «Buttiamolo nella discarica».

DROGHE E WHATSAPP
La “Centro Lazio” fa parte di un grande consorzio: “Italia ortofrutta”, 140 aziende associate. Gennaro Velardo, il presidente, commenta così i risultati dell’ispezione: «Verificheremo per capire l’origine del problema. Lo sfruttamento è inaccettabile ma di certo c’è anche un problema di crisi del reddito per i produttori. Niente è giustificabile però sappiamo cosa può capitare, quando la grande distribuzione chiede prezzi sempre più bassi».

L’estate scorsa un altro consorzio aveva espulso immediatamente una delle sue consociate dopo la denuncia di 14 immigrati che venivano rimborsati a 2,5 euro a cassetta. «Incontreremo la società per capire cos’è successo», dice invece Velardo, che aggiunge: «Gli autocontrolli ci sono, le irregolarità non sono così diffuse. E insisto: bisogna capire anche i bisogni degli agricoltori. Lo dico con una battuta: ma forse il cottimo non sarebbe sbagliato».Di “Italia Ortofrutta” fa parte anche “Ortolanda”, una cooperativa olandese con una lunga esperienza nella coltivazione di ravanelli. Dai Paesi Bassi è scesa fino all’Agro Pontino per coltivare in nome della qualità e dello sviluppo sostenibile. Nove lavoratori Sikh hanno presentato lo scorso agosto una denuncia: avevano un caporale, connazionale, che li convocava la sera per il giorno dopo. Per comodità aveva creato un gruppo WhatsApp intitolato “Ortolanda”: 34 utenti, lui l’unico “amministratore” che decideva chi lavorava e chi no. Le indagini sono in corso e stabiliranno chi dice la verità.

Intanto nelle serre pontine si lavora senza sosta. Per reggere la fatica spesso ci si aiuta anestetizzandosi. Metanfetamine, antispastici e soprattutto oppio: la produzione è in mano agli italiani, lo spaccio agli indiani e costa pochissimo, dieci euro a bulbo. Una spirale che può portare al suicidio: pochi giorni fa è stato trovato un altro ragazzo appeso a una corda dentro un capannone nelle campagne di Borgo Hermada, a ridosso del fondo agricolo in cui lavorava. Aveva trent’anni e non c’era più niente che potesse prendere per sopportare la schiavitù. «Nel sikhismo il suicidio è vietato; la comunità lo associa allo sfruttamento lavorativo intensivo», spiega Marco Omizzolo dell’associazione InMigrazione: «La stessa comunità che affronta con una colletta per i costi per mandare la salma in India».

SE NULLA CAMBIA
Il caporale sbraita - «dovete muovervi, riempire i cassoni!» - e loro, per la prima volta incrociano le braccia. È l’estate del 2011 ed era il primo sciopero dei migranti contro la schiavitù. Grazie a quella protesta nelle campagne di Nardò, in Puglia, fu approvata la legge penale contro il caporalato. Cinque anni dopo «la situazione è peggiorata, i diritti sono regrediti», dice con amarezza Yvan Sagnet, il giovane ingegnere camerunense che per pagarsi gli studi al Politecnico di Torino era arrivato in Salento (un amico gli aveva parlato di “paghe da favola” e invece s’era ritrovato a rischiare di morire): «Sono stati approvati molti provvedimenti, ma rimangono inefficaci se non ci sono i controlli». «Qualche passo in avanti c’è, ma insufficiente», conferma Guglielmo Minervini, consigliere regionale in Puglia ed ex assessore: «A Rignano Garganico si sta già ri-formando il ghetto. Il “distretto del pomodoro” è stato portato a Foggia. Ma per ora non sta accadendo niente».

Nel frattempo, la schiavitù si evolve. In Basilicata, dove dal 2013 i controlli sono più stretti, gli investigatori hanno scoperto cooperative fantasma che regolarizzavano cittadini italiani, pagando per loro i contributi, mentre a raccogliere andavano stranieri, ad un costo inferiore. E sono sempre più diffusi gli sfruttati “a contratto”: sulla carta le ore di lavoro sono solo tre, eppure passano l’intera giornata chinati sui campi. Ma se arriva un controllo: risultano in regola. Anche i caporali ora operano legalmente all’ombra delle agenzie interinali.In Puglia uno di loro è riuscito, da solo, a spostare da una società d’intermediazione all’altra seimila persone, rassegnate a condizioni prive di sicurezza. Spostate come merci, da buttare quando non servono più. Come è successo a Paola Clemente, uccisa lo scorso agosto dalla fatica mentre raccoglieva uva a 150 chilometri da casa. «Le agenzie interinali celano spesso i caporali del terzo millennio», nota Bruno Giordano, magistrato e consulente giuridico della Commissione: «Dovrebbero esserci maggiori controlli. E quando il reato di caporalato avviene da parte di un’agenzia bisognerebbe prevedere un’aggravante».

ORA LE RISPOSTE
Perché una morte come quella di Paola Clemente non si ripeta, il 27 maggio è stato firmato un “protocollo contro il caporalato” per le regioni del Sud. «È un risultato forte», dice Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil: «Il programma avrà a disposizione fondi Ue e risponderà a esigenze concrete». Ora bisogna seguirlo, però. Mentre il 25 giugno i sindacati saranno a Bari per chiedere di votare, finalmente, il disegno di legge contro lo sfruttamento in agricoltura, che «prevede una sanzione per l’azienda: fino ad oggi veniva punito solo il caporale», spiega la senatrice Fabbri, e la confisca dei beni utilizzati per lavorare, fino a tutto il patrimonio qualora si accerti che non coincide con la situazione fiscale. Leggi da modificare, ma soprattutto da applicare, rafforzando i controlli e modificando alcuni aspetti: «Da quando è stata introdotta la legge sul caporalato un solo processo è giunto fino in Cassazione», nota il magistrato Giordano. Per tutti gli altri a poco è valso il coraggio di chi ha denunciato. Per ora, ha vinto l’impunità.

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