martedì 17 maggio 2016

Erdoğan, il rebus dei conti

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I numeri sono, e non da oggi, una delle ossessioni di Recep Tayyip Erdoğan. Le elezioni della riscossa dello scorso novembre, che hanno riconsegnato al partito della Giustizia e dello Sviluppo la sicurezza di governo, non garantiscono lo strapotere all’uomo del comando. Nell’attuale parlamento turco l’Akp ha 316 seggi, gli altri partiti rispettivamente 232, divisi fra i 133 dei repubblicani (un onorevole è uscito dal gruppo), i 59 del partito Democratico del popolo, i 40 dei nazionalisti. 367 è la quota di deputati che consentirebbe un cambio automatico della Costituzione, 330 porterebbe al Referendum popolare. Se il primo obiettivo sembra difficile da raggiungere, il secondo appare a portata di voto, di scambio o comunque d’intesa. Ma i consensi trasversali, che la proposta potrebbe ricevere dal fronte conservatore, presuppone contropartite. Queste possono venire dal decreto che il governo, attualmente in attesa d’un nuovo premier, potrebbe varare. Si tratta della cancellazione dell’immunità parlamentare agli eletti sospettati di fiancheggiamento del terrorismo. E’ il tema su cui il sultano e l’ex fedele Davutoğlu si sono scontrati, andrebbe a colpire alcuni deputati del partito filo kurdo e rinfocolerebbe la polemica con l’Unione Europea che contesta alla Turchia libere interpretazioni sulla legge antiterrorismo trasformatasi in liberticida.
Con tale normativa la lampadina dell’Akp brillerebbe dell’aiuto proveniente da qualche deputato dell’Mhp. Eppure non è così semplice, i conti potrebbero egualmente non tornare visto che, pur guadagnando dall’ultradestra, il partito di maggioranza può sempre perdere nella casa madre voti degli uomini vicini all’ex premier. Davutoğlu smentisce. Lui sta compiendo le consultazioni di prammatica per trovare il suo sostituto alla guida del partito e dell’esecutivo, mostra verso il presidente il bonario aplomb di sempre, nelle recenti principesche nozze di Summeye, la figlia minore del sultano, s’è fatto fotografare sorridente col padre della sposa. Ma quest’ultimo, per prevenire sorprese e voti mancanti, penserebbe di fare acquisti sul fronte nazionalista. Anche nel quartier generale del Mhp c’è maretta. Si prospetta un pensionamento di Bahçeli, che secondo alcune giovani leve avrebbe fatto il suo tempo. E soprattutto non avrebbe trovato proposte aggreganti nei confronti d’un elettorato conservatore che guarda al partito di maggioranza, sì islamico, ma sempre più orientato verso uno stato forte, l’elemento rimpianto dai turchi amanti di divise, galera, divieti e divisioni. E comunque affascinati dal proprio mito di potenza. Questa è la corda che furbescamente Erdoğan continua a pizzicare pur ammantandosi di tutto l’islamismo possibile.
Del resto se la grandezza nazionale deve misurarsi col passato, il fascino imperiale ottomano resta un’icona straordinaria anche per chi è nato sotto il più ferreo kemalismo. Nelle trasformazioni internazionali quelle della politica interna seguono d’appresso e il presidente che vuole tutto è ampiamente realista. Dopo l’uscita di scena di Davutoğlu l’unica incognita resta la partita dei profughi giocata con la Ue. Finora a tutto vantaggio di Ankara, che s’era accordata al rialzo (6 miliardi di euro da incamerare per l’accoglienza sul suo territorio), ottenendo anche la libera circolazione dei concittadini nei Paesi europei in cambio del benestare di Bruxelles sulle leggi antiterrorismo. Qui c’è l’intoppo che riguarda il conflitto coi kurdi, quello armato e quello politico, visto che i deputati Hdp che il presidente vorrebbe portare davanti ai magistrati sarebbero perseguìti per un articolo del codice penale (217) rivolto a “chi incita alla disobbedienza”. La questione coinvolge il concetto di democrazia e libertà d’opinione, contestato dai deputati possibili bersagli del decreto. Loro accusano il partito di maggioranza di “colpo di mano”.  Eppure Erdoğan sa quanto sia pesante l’arma dei rifugiati, perciò continuerà a giocare d’azzardo, come sta facendo da tre anni dentro e fuori i confini meridionali

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