È
iniziata molto male la discussione sulla riforma costituzionale. Si
sorvola sui contenuti e si alzano i toni dello scontro politico.
Il manifestodi Gaetano Azzariti
È
possibile che si tratti di una preordinata strategia comunicativa (in
effetti è stato autorevolmente affermato che si sarebbe usata anche
l’arma della demagogia), ma è comunque difficilmente accettabile l’uso
strumentale di figure del passato per avvalorare le scelte di oggi
(Berlinguer, Ingrao).
Parole
utilizzate in libertà, che vengono stravolte nella loro reale portata,
dal loro contesto, al solo fine di dare una storia nobile alla riforma e
al ceto politico odierno che è senza passato e dall’incerto futuro.
Trovo
incredibile anche la continua delegittimazione delle posizioni non
allineate. I costituzionalisti critici della riforma disprezzati,
aggrediti, compatiti, vilipesi, mossi da «esigenze di carattere
politico, personale, narcisistico»(sic!). Se continua così, non ci sarà
spazio per poter discutere di nulla e il voto sarà alla cieca: più che
un plebiscito una prova di forza. Per nostro conto non urleremo,
piuttosto continueremo a ragionare sulla riforma costituzionale,
prendendo sul serio gli argomenti che ci vengono proposti.
Si
sostiene che la fine del bicameralismo paritario – e, più in generale,
il nuovo assetto dei poteri – produrrà una semplificazione. Il
parlamento approverà più rapidamente le leggi una volta limitati i
poteri del senato. È così? Il passaggio da un unico iter di formazione a
sette diversi modi di fare le leggi non sembra in realtà un buon indice
di semplificazione. Tanto più se si considera l’elenco confuso che è
stato formulato che rende assai arduo individuare dei chiari criteri di
scelta per stabilire quale iter seguire. Non può neppure dirsi che si
siano abbandonate le logiche – ritenute perverse – del bicameralismo,
almeno in tutti i casi in cui sono ancora previste leggi bicamerali.
L’elenco è tassativo, ma assai nutrito. Sarà anche difficile separare
queste leggi dalle altre. Saranno i presidenti dei due rami del
parlamento a stabilire, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di
competenza, da un lato elevando il tasso di politicità della scelta e
dunque esponendosi a contestazioni parlamentari, dall’altro non evitando
gli effetti di un aumento della conflittualità che porterà la Corte
costituzionale a diventare arbitro ultimo dei vizi procedurali. Più che
semplificare risulterà ben più complesso fare le leggi.
A meno
di non riferire la semplificazione auspicata ad una particolare
procedura che la riforma introduce: il voto a data certa. Si prevede in
effetti che il governo possa chiedere alle camere di deliberare entro il
termine di settanta giorni. In tal caso però non di vera
semplificazione si tratta, bensì di limitazione del potere parlamentare a
favore dell’esecutivo. Imporre tempi brevi di approvazione può forse
permettere di far presto, ma non necessariamente bene. Anzi, mi sembra
possa portare ad accentuare i vizi dell’attuale cattivo funzionamento
del parlamento. È noto, infatti, che le maggiori sofferenze che oggi
affliggono i lavori parlamentari sono legate alla dominanza del governo
(eccesso di decretazione d’urgenza, abuso delle richieste di fiducia,
presentazione di emendamenti che riformulano l’intero testo predisposto
dai parlamentari). Il nuovo istituto del voto a data certa si
affiancherà a queste già note perversioni, semplificando nel senso di
rendere più facile fare a meno dell’organo legislativo, ma in tal modo
sbilanciando pericolosamente la nostra forma di governo parlamentare.
Non sempre la semplificazione è una virtù costituzionale.
I
fautori della riforma specificano, poi, che l’auspicata semplificazione
non riguarda solo il modo di far leggi, ma anche i rapporti tra organi
politici. Si differenzia il bicameralismo per concentrare solo sulla
camera dei deputati la funzione di indirizzo politico, solo essa rimane
titolare del rapporto di fiducia ed esercita il controllo sull’operato
del governo. In questo caso non è tanto l’obiettivo auspicato che
suscita perplessità, quanto l’incapacità di perseguirlo con coerenza. In
effetti, il modo più limpido per ottenere tale risultato (semplificando
realmente l’intero assetto parlamentare, ma rendendo al contempo più
solido il ruolo del parlamento) sarebbe stato un altro: la scelta
monocamerale e l’adozione di un sistema elettorale proporzionale. Ciò
avrebbe comportato un parlamento rafforzato nella sua autonomia e dunque
in grado di porsi come effettivo controllore del governo. Non è questa
la semplificazione che si persegue
Ecco
allora un disegno pasticciato. Come può, infatti, pensarsi che un senato
il quale conserva la titolarità di un significativo potere legislativo
su materie decisive (dalle leggi di revisione della costituzione a
quelle collegate all’attuazione della normativa e delle politiche
dell’Unione europea) tuttavia possa rimanere estraneo al circuito
politico e di controllo sull’attività del governo?
L’effetto
di una tale differenziazione del bicameralismo è in realtà del tutto
indeterminato: il senato potrà continuare ad esercitare un penetrante
controllo sull’attività legislativa del governo, solo che potrà farlo in
modo indiretto e senza la responsabilità politica che consegue alla
definizione di un classico rapporto fiduciario. Anche in questo caso
l’assetto dei poteri più che semplificarsi andrà a complicarsi.
«Un’Italia
più semplice» è solo uno slogan (quello prescelto per il manifesto del
Sì), vale la pena discuterlo. Come varrà la pena discutere nel merito
tutti gli altri argomenti o parole d’ordine proposte dai fautori della
riforme. Certo, ciò comporta uno sforzo che va al di là della battuta
salace e volgare. Richiede persino un po’ d’attenzione, un po’ di
riflessione, qualche modestia. Non è «semplice». Chissà se è ancora
lecito oggi in Italia non essere banali.
Nessun commento:
Posta un commento