domenica 29 maggio 2016

Barcellona, la ribellione democratica di Ada Colau.

Un anno fa la vittoria elettorale della pasionaria degli Indignados: da occupante di case a sindaca della città catalana. Un’esperienza che ci parla di cambiamento, diritti, lotta alle diseguaglianze e beni comuni. Un libro edito Alegre ricostruisce il fenomeno di Barcelona en Comù, dove il timore è sempre quello di tradire le aspettative.



micromega di Matteo Pucciarelli
Mentre a Milano destra e sinistra si sfidano presentando due manager che avevano lavorato con le amministrazioni del centrodestra e mentre a Roma la campagna elettorale è tifo da stadio tra chi sfida l’altro a dimostrare di non essere il “più peggiore” (e vorrei ben vedere: una fascista; un palazzinaro; un’avvocatessa che prenderà ordini da un’agenzia di comunicazione; un esponente del Pd, cioè il partito che ha ridotto Roma com’è ridotta), in libreria arriva un saggio che parla di ciò di cui dovrebbe parlare la politica: valori e utopie, anche - se non soprattutto - nell’amministrare una (grande) città.

La cattiva notizia è che non è ambientato in Italia, ma in Spagna. “Ada Colau, la città in comune” (Alegre) è il terzo capitolo della saga europea del giornalista di MicroMega Giacomo Russo Spena (dopo il focus su Tsipras e quello su Podemos, insieme al sottoscritto) che stavolta con il ricercatore dell’università di Lisbona Steven Forti racconta la storia della Colau: da occupante di case a sindaca di Barcellona, esattamente un anno fa. Il volume si chiude con una intervista a Luigi De Magistris, primo cittadino di Napoli e l’unico in Italia che prova a riproporre, seppur con le differenze del caso, la “rivoluzione municipale” che in Spagna ha portato la sinistra radicale e i movimenti di base a governare non solo la città catalana ma anche Madrid, Valencia, Saragozza, Cadice, La Coruna.

Dentro la storia di Ada Colau e del movimento in cui è nata e cresciuta politicamente – quello contro gli sfratti, uno degli effetti più disastrosi della crisi in Spagna – ci si trova un livello di innovazione (nella teoria, nelle pratiche, nella prassi, nel linguaggio) impensabile in Italia, ma di sicuro auspicabile. Per questo motivo la vicenda merita di essere studiata e analizzata. «C’è una distanza abissale, francamente pericolosa, tra le istituzioni e i cittadini – spiega lei nel lungo colloquio iniziale con i due autori - che oltre a causare la sofferenza della gente produce una sensazione di disintegrazione delle istituzioni democratiche che in altre parti d’Europa sta portando al risorgere di movimenti populisti di estrema destra. In tale contesto ci sono state grandi mobilitazioni sociali: la Pah (Plataforma de Afectados por la Hipoteca), il 15M, le “maree” per l’educazione e la salute. Si è individuato uno spazio politico vuoto che il sistema
partitico tradizionale non è riuscito a colmare: i partiti per troppi anni sono stati l’unica espressione della partecipazione democratica, ma con il cambiamento della società, ora molto più “liquida”, si dimostrano inadeguati, con una struttura insufficiente. Come minimo bisognerebbe rifondare l’idea di partito, rendendolo meno verticistico, opaco, burocratico ed elettoralistico».

E poi, aggiunge, «il mutualismo e il radicamento sui territori sono l’unico modo per rispondere all’impoverimento generale e all’enorme disuguaglianza. Ed io vengo da lì. Ero stanca sia dei classici partiti di sinistra che dei movimenti sociali autoreferenziali e gruppettari, con i loro linguaggi incomprensibili. Quando abbiamo fondato la Pah il mio obiettivo era incidere nella società, cambiarla veramente, e per farlo sei obbligato a relazionarti con la massa, ovvero anche con persone che si definiscono né di destra né di sinistra, senza una forte ideologia o conoscenza del passato. Altrimenti è impossibile, a meno che non si voglia applicare una forma di dispotismo illuminato».  

Ma la 42enne Colau non risponde allo stereotipo della frequentatrice dei centri sociali. Nasce anzi come liberale, seppur di sinistra, vicina al collettivo Critica Liberal. Fa l’Erasmus in Italia, a Milano e una volta tornata in patria si avvicina al movimento no global. Ma la vita privata si intreccia con l’impegno politico: anche lei, con la crisi, rimane in mezzo alla strada. «Dovevamo capovolgere la narrazione secondo cui la colpa era delle persone ree di aver vissuto oltre le proprie possibilità – racconta una delle compagne della Colau, Lucia Delgado - La responsabilità è delle banche e del sistema creditizio». Il lavoro da fare, in quel biennio terribile 2009-2010, era politicizzare delle persone che vivevano con un forte senso di colpa e di depressione, persone che molti criminalizzavano e stigmatizzavano per la loro presunta “mancanza di realismo”.

In questo senso il contraccolpo della Spagna - passata nel giro di poco tempo dal ruolo di gazzella della nuova e splendente economia europea, così flessibile e smart, a quello di agonizzante elefante mangiato al proprio interno da un esercito di cicale – è servito a scatenare una protesta popolare che altrove (vedi l’Italia) non c’è stata. Gli indignados ne sono stati il frutto più fecondo. Un movimento diffuso, popolare, poco connotato politicamente, trasversale, spesso confuso: eppure capace di dire, in maniera semplice, che la colpa della crisi non era dei cittadini i quali, adesso, venivano chiamati a pagarne il conto. La classe politica spagnola è stata messa nel mirino ma insieme al potere economico, perché l’uno – hanno capito gli spagnoli, non gli italiani - è stato il braccio armato dell’altro. «Le banche non potevano attuare il loro malefico piano di concentramento di potere senza la complicità delle istituzioni pubbliche», denunciava infatti la Pah.

Nel loro viaggio a Barcellona, Russo Spena e Forti si soffermano sulla crescita di un movimento di protesta che pian piano è diventato un punto di riferimento politico capace di fare massa e dettare l’agenda e le condizioni agli stessi partiti di “area”. Ecco il programma di governo della città che portò alla costituzione di una lista elettorale, “Barcelona en Comú”: lottare contro la precarietà, la povertà e la disuguaglianza, promuovere un reddito minimo garantito, creare posti di lavoro con condizioni dignitose, evitare gli sfratti per motivi economici, costruire case popolari, assicurare acqua, luce e gas a prezzi accessibili alla cittadinanza, combattere i privilegi in politica, sostenere la trasparenza e favorire processi partecipativi, appoggiare la piccola e media impresa, il lavoro autonomo, il commercio a km zero e l’economia cooperativa, investire nel trasporto pubblico a prezzi sociali, rafforzare la sanità e l’educazione pubblica, rimunicipalizzare i servizi che sono stati privatizzati, garantire i diritti sociali, lottare contro il razzismo, la violenza di genere e il sessismo, trasformare Barcellona in una città rispettosa della diversità e in un referente internazionale di giustizia e democrazia.

Certamente la tradizione socialista e anarchica, cosmopolita e tollerante della capitale della Catalogna sono stati un terreno fertile per l’esperimento guidato da Ada Colau. E allo stesso tempo l’onda lunga di Podemos ha rappresentato una ulteriore spinta al cambiamento.
Ma molto del merito va alla stessa Colau, descritta come «un animale mediatico: parlantina sciolta, sicura di sé, informata e sempre con dati alla mano. E soprattutto capace di creare empatia con il prossimo. La sindaca buca lo schermo, ha olfatto politico, annienta gli avversari. È dolce nella forma e dura nei contenuti. Molto ambiziosa, trasmette un’incredibile autenticità. Una persona preparata ma comune, parla in maniera semplice, frequenta i locali alternativi, anche ora che è sindaca».

Secondo il sociologo Manuel Castells, Ada Colau applica il motto degli indignados “andiamo piano perché andiamo lontano”, incarnando «serenità e senso delle istituzioni da una parte, fermezza e intransigenza dall’altra: è molto più pratico essere ribelle senza sembrarlo che il contrario». Insomma, anche la radicalità ha bisogno di saper essere comunicata empaticamente, utilizzando a proprio vantaggio i media e i nuovi modelli informativi. «Il ragionamento – scrivono Russo Spena e Forti - ha spinto ad una convinzione collettiva: non si può prescindere dalla rete. Nello stesso momento si è consapevoli che il modo più sbagliato di agire nella sfera digitale sarebbe quello di ritenere che questa sia di per sé democratica e capace da sola di andare oltre i limiti della rappresentanza politica (…) il modello di democrazia di Barcelona en Comú funzionerebbe, e funziona, perché alle spalle esistono movimenti popolari e partecipazione reale, il web inteso quindi come moltiplicatore delle piazze piene».

Ma detto questo, rimane la differenza abissale tra lo stare nelle piazze e governare i fenomeni politici, magari con le casse vuote. «Il timore di tradire le aspettative è reale», sottolineano gli autori e il pensiero va subito ad Alexis Tsipras. «Di certo lei non teme il conflitto – aggiungono - anzi i movimenti sociali sono il cardine della democrazia e bisogna continuare a protestare anche dalle istituzioni. Sogna una Barcellona non pacificata. Almeno a parole».

Ecco, la riscoperta catalana e in parte spagnola probabilmente è qui: provare a governare avendo ben in mente l’esistenza dei conflitti. E invece di sedarli, prenderne parte. Stando dalla parte giusta.

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