Dalle recenti dichiarazioni di Juncker al Parlamento europeo, con le
quali si rende più flessibile l’applicazione dei limiti esistenti ai
deficit pubblici per i paesi impegnati nell’accoglienza ai migranti,
sembrano trasparire una certa consapevolezza delle nuove sfide
all’impalcatura europea e l’esigenza di cambiarne alcune regole. Quanto
questo possa esprimere un convincimento profondo, quali sono le ragioni
teoriche sottostanti e quali possono essere le forze contrarie è un
discorso più complesso.
Le attuali istituzioni dell’Unione Monetaria Europea (UME) risalgono alle linee tracciate all’inizio degli anni Novanta. Esse sono largamente basate sul libero funzionamento dei mercati e su poche istituzioni comuni, essenzialmente la moneta unica, e su poche altre come una parziale unione bancaria, sostenute da uno striminzito bilancio comunitario.
Alla loro base vi era l’idea che mercati e moneta unica avrebbero assicurato un’integrazione armoniosa, capace di eliminare i molti squilibri esistenti e, in particolare, le inefficienze esistenti nei settori pubblici e privati di alcuni paesi. Il vincolo esterno, dato dalla moneta unica e dall’impossibilità di ricorrere alle svalutazione delle monete nazionali avrebbe indotto comportamenti pubblici e privati virtuosi di questi paesi, proprio per l’operare dei mercati. Sindacati o imprese esosi avrebbero dovuto moderare le proprie pretese e i cittadini avrebbero fatto pressione sui governi per una maggiore efficienza dell’apparato pubblico. A livello europeo sarebbe bastata un’istituzione, come la Banca Centrale Europea, mirante in primo luogo a tener bassa l’inflazione per assicurare anche un’elevata occupazione.
Le teorie sottostanti erano maturate dalla fine degli anni Sessanta e predicavano controllo della moneta, riduzione dell’inflazione, indipendenza della banca centrale dal potere politico e minore ingerenza dello stato. L’azione pubblica, infatti, era giudicata non soltanto inefficace, ma dannosa. Una riduzione delle spese e del debito pubblico avrebbe comportato un effetto virtuoso di aumento – non di riduzione – del reddito e dell’occupazione, per l’esistenza di quelli che in gergo vengono chiamati effetti moltiplicativi delle spese pubbliche sul reddito, giudicati bassi o negativi. D’altra parte, il coordinamento attivo, in senso espansivo, delle politiche fiscali in sede europea era giudicato controproducente ed era preferibile vincolare l’azione pubblica al rispetto di un deficit massimo del 3%. Che questo comportasse limiti per l’azione stabilizzatrice in caso di crisi nei vari paesi, in particolare di quelli con un più elevato stato sociale, era poco rilevante.
Questi fondamenti teorici dell’UME si sono dimostrati invalidi, come mostrano le ricerche degli ultimi 15-20 anni. Se i governanti europei avessero preso coscienza delle nuove teorie man mano che le vecchie venivano demolite, forse non avrebbero inflitto alla Grecia e anche all’Europa tutta, una recessione così pesante come quella dalla quale forse stiamo faticosamente uscendo per il concorso favorevole di numerose circostanze e per l’azione intelligente, ma contrastata, della BCE. A ben vedere, il peggioramento della situazione economica greca e degli altri paesi periferici (e in una certa misura della Germania stessa) è dovuto quasi interamente alle politiche deflattive imposte e al rispetto del deficit massimo consentito. Si prenda il caso dell’aumento di 20 punti percentuali del rapporto fra debito pubblico e Pil in Italia, attribuibile interamente alla caduta del PIL del 10% e alla deflazione dopo il 2007. Una sana politica espansiva avrebbe invece ridotto il rapporto.
Forse, però, la prevalenza della visione e degli interessi tedeschi avrebbe comunque portato alle stesse politiche che sono state effettivamente adottate. Si pensi all’esperienza del 2004, quando le regole europee sul deficit massimo furono violate proprio dalla Francia e dalla Germania, evidenziando l’importanza degli interessi costituiti e la loro prevalenza rispetto alle regole esistenti. D’altro canto, nel 2010, quando è iniziato lo strozzamento della Grecia, i paesi dominanti forse avrebbero ugualmente applicato le stesse politiche, se il primo obiettivo della soluzione applicata alla crisi greca era quello di far tranquillamente defilare le banche – ancora una volta – francesi e tedesche (ma anche italiane) dalle loro posizioni creditorie verso la Grecia. O forse, indipendentemente da ciò, la posizione tedesca sarebbe rimasta la stessa perché in Germania il debito è una colpa in sé (al di là di altre colpe che anche la Grecia, insieme ad altri paesi inefficienti come l’Italia, ha), non condivisa da chi concede credito (magari, incautamente, perché non sa valutare la situazione economica e le tensioni accumulate).
L’origine e la gestione della crisi finanziaria, dunque, sono state probabilmente il capolavoro delle istituzioni e delle politiche dell’UME al servizio non delle teorie, ma degli interessi. E sono questi, dunque, che remeranno contro un cambiamento sostanziale e duraturo delle strategie, anche perché nel frattempo la posizione di forza relativa della Germania si è anche rafforzata.
Le attuali istituzioni dell’Unione Monetaria Europea (UME) risalgono alle linee tracciate all’inizio degli anni Novanta. Esse sono largamente basate sul libero funzionamento dei mercati e su poche istituzioni comuni, essenzialmente la moneta unica, e su poche altre come una parziale unione bancaria, sostenute da uno striminzito bilancio comunitario.
Alla loro base vi era l’idea che mercati e moneta unica avrebbero assicurato un’integrazione armoniosa, capace di eliminare i molti squilibri esistenti e, in particolare, le inefficienze esistenti nei settori pubblici e privati di alcuni paesi. Il vincolo esterno, dato dalla moneta unica e dall’impossibilità di ricorrere alle svalutazione delle monete nazionali avrebbe indotto comportamenti pubblici e privati virtuosi di questi paesi, proprio per l’operare dei mercati. Sindacati o imprese esosi avrebbero dovuto moderare le proprie pretese e i cittadini avrebbero fatto pressione sui governi per una maggiore efficienza dell’apparato pubblico. A livello europeo sarebbe bastata un’istituzione, come la Banca Centrale Europea, mirante in primo luogo a tener bassa l’inflazione per assicurare anche un’elevata occupazione.
Le teorie sottostanti erano maturate dalla fine degli anni Sessanta e predicavano controllo della moneta, riduzione dell’inflazione, indipendenza della banca centrale dal potere politico e minore ingerenza dello stato. L’azione pubblica, infatti, era giudicata non soltanto inefficace, ma dannosa. Una riduzione delle spese e del debito pubblico avrebbe comportato un effetto virtuoso di aumento – non di riduzione – del reddito e dell’occupazione, per l’esistenza di quelli che in gergo vengono chiamati effetti moltiplicativi delle spese pubbliche sul reddito, giudicati bassi o negativi. D’altra parte, il coordinamento attivo, in senso espansivo, delle politiche fiscali in sede europea era giudicato controproducente ed era preferibile vincolare l’azione pubblica al rispetto di un deficit massimo del 3%. Che questo comportasse limiti per l’azione stabilizzatrice in caso di crisi nei vari paesi, in particolare di quelli con un più elevato stato sociale, era poco rilevante.
Questi fondamenti teorici dell’UME si sono dimostrati invalidi, come mostrano le ricerche degli ultimi 15-20 anni. Se i governanti europei avessero preso coscienza delle nuove teorie man mano che le vecchie venivano demolite, forse non avrebbero inflitto alla Grecia e anche all’Europa tutta, una recessione così pesante come quella dalla quale forse stiamo faticosamente uscendo per il concorso favorevole di numerose circostanze e per l’azione intelligente, ma contrastata, della BCE. A ben vedere, il peggioramento della situazione economica greca e degli altri paesi periferici (e in una certa misura della Germania stessa) è dovuto quasi interamente alle politiche deflattive imposte e al rispetto del deficit massimo consentito. Si prenda il caso dell’aumento di 20 punti percentuali del rapporto fra debito pubblico e Pil in Italia, attribuibile interamente alla caduta del PIL del 10% e alla deflazione dopo il 2007. Una sana politica espansiva avrebbe invece ridotto il rapporto.
Forse, però, la prevalenza della visione e degli interessi tedeschi avrebbe comunque portato alle stesse politiche che sono state effettivamente adottate. Si pensi all’esperienza del 2004, quando le regole europee sul deficit massimo furono violate proprio dalla Francia e dalla Germania, evidenziando l’importanza degli interessi costituiti e la loro prevalenza rispetto alle regole esistenti. D’altro canto, nel 2010, quando è iniziato lo strozzamento della Grecia, i paesi dominanti forse avrebbero ugualmente applicato le stesse politiche, se il primo obiettivo della soluzione applicata alla crisi greca era quello di far tranquillamente defilare le banche – ancora una volta – francesi e tedesche (ma anche italiane) dalle loro posizioni creditorie verso la Grecia. O forse, indipendentemente da ciò, la posizione tedesca sarebbe rimasta la stessa perché in Germania il debito è una colpa in sé (al di là di altre colpe che anche la Grecia, insieme ad altri paesi inefficienti come l’Italia, ha), non condivisa da chi concede credito (magari, incautamente, perché non sa valutare la situazione economica e le tensioni accumulate).
L’origine e la gestione della crisi finanziaria, dunque, sono state probabilmente il capolavoro delle istituzioni e delle politiche dell’UME al servizio non delle teorie, ma degli interessi. E sono questi, dunque, che remeranno contro un cambiamento sostanziale e duraturo delle strategie, anche perché nel frattempo la posizione di forza relativa della Germania si è anche rafforzata.
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