Il prossimo 5 giugno, i cittadini svizzeri sono chiamati a votare un referendum proposto dal partito UDC (Unione democratica di centro, in tedesco SVP, destra conservatrice) per cassare la riforma dell'asilo elaborata dalla consigliera federale Simonetta Sommaruga, del Partito Socialista , e approvata dal parlamento svizzero.
La piccola e prospera Svizzera conta circa otto milioni di abitanti divisi tra area di lingua tedesca (63,7%), Svizzera romanda (di lingua francese 20,4%) e Svizzera italiana (6,5%), più il cantone dei Grigioni dove si parla tedesco, italiano e romancio (0,5%); di questi otto, circa due milioni sono gli stranieri residenti (che non votano), di cui più dell'80% provenienti dai paesi dell'Unione Europea (Italia e Germania in testa), in crescita negli ultimi anni.
I richiedenti asilo nel 2015 sono stati 39.523, rispetto al 2014 in cui erano state depositate 23.765 domande (dati ufficiali SEM, Segreteria di Stato della Migrazione): il totale delle persone che rientrano nel campo dell'asilo ammonta a un modesto 1,3% della popolazione: circa 10.000 eritrei, 7.800 afgani, 4.700 siriani, 2.400 iracheni, 1.900 dallo Sri Lanka hanno fatto domanda lo scorso anno (le prime provenienze).
Basterebbero questi pochi dati a spegnere qualsiasi retorica dell'invasione da profughi. Eppure negli ultimi anni il tema è diventato scottante, e a giudicare da giornali e telegiornali, unito ai dati sulla disoccupazione crescente (circa il 3,5% in media), ha scatenato le paure degli svizzeri. C'è una pericolosa tendenza a giudicare “meritevoli” di protezione a seconda del paese di provenienza; e un'altrettanto pragmatica tendenza a “scoraggiare” il più possibile arrivi e permanenze attraverso misure dissuasive concrete: centri di accoglienza ricavati in vecchi stabili militari anche sotterranei, collocamento in posti isolati, anche per convincere chi non viene riconosciuto a ripartire «volontariamente».
Dall'entrata in vigore della legge sull'asilo nel 1981, le revisioni sono state una decina, in media una ogni tre anni, e tutte hanno inasprito il settore. La riforma dell'asilo in questione prevede una accelerazione della procedura attraverso la concentrazione dei richiedenti in sei grandi centri federali, dove si troveranno tutti gli attori interessati: funzionari dell'immigrazione addetti all'analisi delle domande, interpreti, operatori del diritto, richiedenti asilo. Qui dovrebbero essere trattati sei casi su dieci (casi Dublino, domande manifestamente infondate, casi provenienti da "paesi sicuri", in altre parole quelli per cui è altamente probabile una risposta negativa...), mentre i restanti quattro casi su dieci sarebbero come ora smistati tra i vari cantoni – i casi giudicati “complessi”, in realtà i casi per cui c'è una forte probabilità che riceveranno uno statuto (rifugiato o "ammissione provvisoria"), e per i quali non è affatto prevista una «velocizzazione» delle procedure. I favorevoli sostengono che questo sarà un bene per tutti, sia per chi verrà riconosciuto rifugiato, perché si potrà integrare più rapidamente nel mercato del lavoro svizzero, ma anche per chi non può rimanere, perchè non si farà illusioni e potrà programmare meglio il suo futuro. Si dice che ci sarà anche un potenziale risparmio di circa novanta/centomila franchi all'anno; ma bisogna anche calcolare quanto influirà la riforma sulle casse dei cantoni. I contrari – in particolare il partito UDC che ha proposto il referendum – sostengono che la legge non interviene sulle cause delle migrazioni (si rispolvera la vecchia metafora idraulica del “rubinetto” per evocare flussi inarrestabili di persone pronte a “riversarsi” in Svizzera) e soprattutto si scagliano contro la previsione dell'assistenza giuridica gratuita, giudicata un incentivo a chiedere asilo, e la possibilità di requisire stabili anche privati per istituire i centri federali.
Ciò che manca nei discorsi di entrambi, sia di chi è favorevole sia di chi è contrario, è l'idea che l'asilo sia un diritto, non una questione di numeri da contenere. La gara è tra chi si fregia di mandare via più richiedenti, con accenti un po' più “umanitari” fra i favorevoli alla legge, e più “sbrigativi” fra UDC e Lega dei Ticinesi, che sostengono il no al referendum.
Il sì della sinistra è una novità: finora compatta aveva sempre contrastato le passate revisioni legislative. Ma una parte della sinistra, specialmente nella parte francese, voterà no. Il perché lo si capisce se si analizza meglio il contenuto della revisione. Uno fra gli aspetti più gravi ad esempio è che non sarà più giudicato meritevole di protezione chi diserta dal servizio militare: una previsione in realtà già in vigore in qualità di misura urgente ma finora non molto applicata, che dovrebbe colpire in particolare gli eritrei, il gruppo più consistente di richiedenti, che come è noto abbandonano il loro paese per sfuggire al servizio militare obbligatorio permanente per uomini e donne istituito dal regime di Isaias Afeworki. Si riconferma l'impossibilità di presentare domanda presso le rappresentanze consolari e ambasciate svizzere all'estero, costringendo i profughi a prendere la via più pericolosa, quella irregolare, affidandosi ai passeur e trafficanti che organizzano i viaggi in cui muoiono ormai a centinaia e migliaia ogni anno. Perfino la previsione dell'assistenza giuridica, prestata non necessariamente da avvocati ma da operatori del diritto che dovrebbero consigliare il richiedente nelle more della procedura, risulta un miglioramento solo in teoria, in quanto questi giuristi sarebbero rimborsati dalla Segreteria di Stato della Migrazione, quindi non proprio indipendenti, e solo nei centri federali, non quindi nei casi ordinari giudicati «complessi», che avrebbero perfino più bisogno di essere seguiti. E difatti nel dibattito pubblico, alle critiche dell'UDC di attivare un “effetto richiamo” grazie all'assistenza legale gratuita, la Sommaruga si difende affermando che in due anni di progetto pilota nel centro federale istituito a Zurigo messo in piedi per “testare” il funzionamento della legge, il tasso di ricorsi è calato del 32%. Per non parlare della concentrazione in grandi centri isolati, con evidenti problemi di integrazione e perfino minori scolarizzati sotto lo stesso tetto, senza contatto con la popolazione locale.
Mentre le grandi associazioni si sono dichiarate più o meno “criticamente favorevoli” alla legge (Amnesty International, il SOS – Soccorso Operaio Svizzero, l'OSAR – Organizzazione Svizzera di aiuto ai rifugiati, quest'ultima per la verità molto favorevole forse perché probabile aggiudicataria della famosa assistenza giuridica come già sperimentato nel «test» di Zurigo), altri gruppi di attivisti e organizzazioni si sono schierati per un no da sinistra, attirandosi l'accusa di votare come l'UDC: Vivre Ensemble, Appello per la salvaguardia del diritto d’asilo, SOS Asile vaud, Elisa-Asile, il partito Solidarités, alcuni sindacati (SIT di Ginevra per esempio). La spaccatura della società civile racconta le contraddizioni che il tema delle migrazioni porta con sé, sulle quali la destra è riuscita a insinuarsi riuscendo nell'opera illusionista di far apparire una chiusura come una manifestazione di «buonismo», ma anche le diverse posizioni di chi opera nel sistema dell'accoglienza finanziato da Stato e cantoni, e che di conseguenza è più invogliato a vedere gli aspetti positivi della legge per non perdere fondi e prestigio.
Comunque vada il referendum del 5 giugno, è evidente che i partiti tentano di parlare alla pancia degli svizzeri, lanciando un messaggio di chiusura mascherato con le parole d'ordine di “rapidità e efficienza”, e lasciando fuori il dovere di accogliere chi fugge da guerre e persecuzioni. Da qui si dovrà ripartire, come afferma la presa di posizione di Vivre Ensemble: i richiedenti asilo continueranno ad avere bisogno del sostegno della società civile per far udire la loro voce. E con il clima che tira in Europa, l'unica previsione facile da azzeccare è che ci sarà molto da lavorare.
* Senzaconfine
NB: ringrazio Cristina Del Biaggio per le puntuali informazioni utilizzate per questo articolo.
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