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“F:
LA GRANDE FRATTURA : la disuguaglianza e i modi per sconfiggerla” è
questo il titolo dell’edizione italiana (Einaudi) della raccolta di
scritti di Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia che con i
suoi testi pubblicati dal New York Times e da diverse riviste si e
proposto lo scopo di analizzare, per combatterla, la frattura che separa
l’1 per cento dei ricchi dal 99 per cento degli altri.
A suo parere bisogna affrontare la disuguaglianza economica come una
questione politica e morale. Per una società più prospera e giusta.
Stiglitz affronta il tema in maniera naturalmente diversa dai marxisti e dalla concezione di fondo della lotta di classe: pur tuttavia notata questa decisiva distinzione sul piano ideologico che va comunque mantenuta, non si può ignorare l’importanza del lavoro di questo economista così come quello di altri interni al filone dell’eredità keynesiana tipo Paul Krugman, oppure di teorici del rapporto tra la libertà e il benessere degli individui come Amartya Sen e ancora studiosi del regime di disuguaglianza nella ricchezza come Thomas Piketty.
L’argomento che s’intendeva toccare però, attraverso questo intervento, è un altro il cui riferimento è contenuto in questo passo del libro che si riporta di seguito : “Gran parte del mio servizio accademico e pubblico degli ultimi decenni, compreso l’incarico presso il Consiglio dei consulenti economici durante l’amministrazione Clinton e quello alla Banca Mondiale, è stato dedicato al contenimento della povertà e della disuguaglianza. Spero di essere stato all’altezza della chiamata di Martin Luther King mezzo secolo fa. Il reverendo aveva ragione a individuare nella persistenza di questi dovari un cancro per la nostra società, che mina la democrazia e indebolisce l’economia. Il suo messaggio era che le ingiustizie del passato non erano inevitabili. Ma sapeva anche che sognare non era abbastanza”.
Queste parole pongono una questione prima di tutto di carattere etico: circondati come siamo da tanta arroganza esercitata da improvvisati arrampicatori del potere, colpisce come uno studioso del valore di Joseph Stiglitz interroghi se stesso sul valore della sua opera in cinquant’anni di attività.
Un gesto di enorme umiltà consapevole, un segnale la cui essenza morale appare dimenticata nell’arrembante “disvalore sociale” emergente nell’oggi.
Un segno di umiltà consapevole che si pone accanto all’altra indicazione che queste poche righe contengono: quella della “chiamata”, dell’avere cioè seguito un messaggio ideale al riguardo del quale essere coerenti fino al punto dell’interrogarsi sulla propria capacità personale nel seguire il messaggio presente in quella “chiamata”.
Una vera e propria “vocazione all’umiltà”.
Si tratta davvero poche righe che fanno meditare sul rapporto tra visione morale e impegno intellettuale e politico: un nesso che rappresenta merce davvero rara di questi tempi e che vale la pena evidenziare per rifletterci assieme.
Stiglitz affronta il tema in maniera naturalmente diversa dai marxisti e dalla concezione di fondo della lotta di classe: pur tuttavia notata questa decisiva distinzione sul piano ideologico che va comunque mantenuta, non si può ignorare l’importanza del lavoro di questo economista così come quello di altri interni al filone dell’eredità keynesiana tipo Paul Krugman, oppure di teorici del rapporto tra la libertà e il benessere degli individui come Amartya Sen e ancora studiosi del regime di disuguaglianza nella ricchezza come Thomas Piketty.
L’argomento che s’intendeva toccare però, attraverso questo intervento, è un altro il cui riferimento è contenuto in questo passo del libro che si riporta di seguito : “Gran parte del mio servizio accademico e pubblico degli ultimi decenni, compreso l’incarico presso il Consiglio dei consulenti economici durante l’amministrazione Clinton e quello alla Banca Mondiale, è stato dedicato al contenimento della povertà e della disuguaglianza. Spero di essere stato all’altezza della chiamata di Martin Luther King mezzo secolo fa. Il reverendo aveva ragione a individuare nella persistenza di questi dovari un cancro per la nostra società, che mina la democrazia e indebolisce l’economia. Il suo messaggio era che le ingiustizie del passato non erano inevitabili. Ma sapeva anche che sognare non era abbastanza”.
Queste parole pongono una questione prima di tutto di carattere etico: circondati come siamo da tanta arroganza esercitata da improvvisati arrampicatori del potere, colpisce come uno studioso del valore di Joseph Stiglitz interroghi se stesso sul valore della sua opera in cinquant’anni di attività.
Un gesto di enorme umiltà consapevole, un segnale la cui essenza morale appare dimenticata nell’arrembante “disvalore sociale” emergente nell’oggi.
Un segno di umiltà consapevole che si pone accanto all’altra indicazione che queste poche righe contengono: quella della “chiamata”, dell’avere cioè seguito un messaggio ideale al riguardo del quale essere coerenti fino al punto dell’interrogarsi sulla propria capacità personale nel seguire il messaggio presente in quella “chiamata”.
Una vera e propria “vocazione all’umiltà”.
Si tratta davvero poche righe che fanno meditare sul rapporto tra visione morale e impegno intellettuale e politico: un nesso che rappresenta merce davvero rara di questi tempi e che vale la pena evidenziare per rifletterci assieme.
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