domenica 30 agosto 2015

Migrazioni e muri, abbiamo il dovere di fare.

Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee, una passeggiata e due  riflessioni.

Antropologa

Ungheria, migranti che oltrepassano il confine metallico serbo-unghereseLa passeggiata  comincia a Piazzale Flaminio a Roma, prosegue per la salita detta Muro Torto, poi  continua nel lungo tratto pianeggiante chiamato Corso d’Italia e, superata piazza Fiume, si conclude a piazzale Porta Pia.  Alla fine di questo percorso Salvini avrà costeggiato e avrà avuto modo di ammirare uno dei tratti   meglio conservati delle Mura Aureliane,  la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma,  capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni  dei  barbari. Il tratto di mura della passeggiata  è  uno dei molti  ancora oggi conservati; si resta affascinati dal diametro della cinta muraria, (Roma all’epoca sfiorava  il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri  di  avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare.
Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli,  ne ritardò  il compimento.

E qui comincia la prima riflessione: quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano i componenti di un movimento di popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati: essi impararono il latino e adottarono princìpi del diritto romano, con la conseguenza che nessun europeo oggi può dirsi direttamente discendente  dai romani: discendiamo tutti, anche gli pseudocelti, da incroci tra cives romani e/o Vandali, Eruli, Ostrogoti, Visigoti, Longobardi, Franchi, Sassoni  e…, ebbene sì, anche dagli Unni. Le Mura Aureliane non servirono. Bisognerebbe spiegarlo anche al signor Viktor Orban, Capo del Governo dell’Ungheria: magari potrebbe risparmiare tempo e denaro.
Asserire che le fortificazioni non servono, non significa però per nulla affatto sostenere che non c’è niente da fare. Direi proprio il contrario: abbiamo il dovere di fare. Per risparmiare a tutti, anche a noi stessi, pena, dolore, umiliazione, danni di ogni genere, morti incluse.
C’è da fare alla macroscala, con problemi che giustamente sono stati definiti geopolitici. Si dovrebbe intervenire per rallentare e, se possibile, fermare i flussi in uscita.
“Aiutarli a casa loro” è lo slogan ripetuto fino alla noia. Benissimo. Come? Inviando qualche centinaia di camion con coperte, medicinali, cibo in scatola? Convocando Commissioni e Consigli dell’EU e dell’ONU, che auspicano, invitano, sollecitano ecc. ecc. ? Se non vogliamo essere ipocriti dobbiamo ammettere che le misure che avrebbero efficacia sostanziale entro tempi ragionevoli, sono principalmente due:  una sorta di embargo che proibisse a livello mondiale, almeno per un certo numero di anni, la produzione e la vendita di armi; e una politica di sviluppo economico che favorisse la reinvenzione di una economia di sussistenza a scala locale, limitando la dipendenza dei paesi e dei gruppi umani in genere, dai mercati internazionali. Semplice, no? Ma chi convincerà i fabbricanti e i mercanti di armi da un lato e gli industriali alimentari conservieri dall’altro ad accettare queste scelte? Senza parlare dei lavoratori delle industrie delle armi e dei cibi conservati, che vedrebbero a rischio i loro posti di lavoro. E le ricchezze nascoste nel sottosuolo dei Paesi in guerra, che ne facciamo? Gliele lasciamo?
La seconda riflessione riguarda i problemi umanitari quotidiani dell’accoglienza, sui quali si focalizza il dibattito e si concentrano le iniziative. Una volta di più noi italiani abbiamo ‘fatto gli italiani’: generosi, coraggiosi, intelligentemente organizzati e umanissimi nelle operazioni di salvataggio e di primo soccorso; vergognosamente intenti a farsi ognuno i ‘fatti propri’ quando si è trattato sia di amministrare il denaro destinato ai rifugiati che di spiegare agli altri italiani  chi sono coloro che arrivano, che cosa chiedono e che cosa possono dare. Anche in questo caso, se non vogliamo essere ipocriti, dobbiamo ammettere che la cosa che funzionerebbe meglio è una totale eliminazione delle intermediazioni: il rifugiato riceve direttamente dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di apprezzamento e di gratitudine per la solidarietà ricevuta, ci si aspetta che si offra volontario per lavori socialmente utili.  Che non è che in Italia mancherebbero, solo a volerli individuare, e avrebbero un’eccellente funzione di integrazione.
Ma anche in questo caso: che ne direbbero i professionisti dell’intermediazione (che preferiscono chiamarsi  dell’accoglienza) come la lega delle Cooperative, la Caritas e quant’altro? E i professionisti del volontariato? (Esistono, eccome se esistono).
Ho proposto due riflessioni inutili, almeno  sul piano operativo. Ne sono pienamente consapevole. Mi basterebbe se fossero utili  per  fare un po’ di chiarezza su un punto: il problema delle migrazioni è anche il problema di chi  sulle migrazioni ci guadagna, ci specula, ci costruisce ricchezza e/ o successo politico. Se non si risolve  quest’ultimo problema, è vano sperare di risolvere gli altri. Pazienza: tanto, un po’ alla volta, tra le morti sui campi di pomodori e quelle nelle stive, tra dolore, pena ,umiliazione e vergogna,.ci aggiusteremo. Imbarbarendoci ancora un po’.

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