Vicino a Nardò, non lontano dalle spiagge affollate di turisti, i giovani africani lavorano nei campi di pomodori e angurie per pochi euro al giorno. Vivono in locali fatiscenti senza acqua né corrente elettrica. Dormono su materassi all'aperto. Qualcuno di loro si accascia sotto il sole. Alcuni si ammalano. Ecco i loro racconti.
Nei campi del Salento, a Nardò, arrivano a metà maggio. Un esercito tra i 300 e i 400 braccianti, quasi tutti migranti subsahariani e tunisini con regolare permesso di soggiorno, che vanno a rifugiarsi nei locali di un’ex falegnameria dismessa e in un vicino campo allestito dal comune con diciassette tende (Sedici quando entriamo nella tendopoli: sul piazzale una delle tende giace in terra: “sta lì da giorni, nessuno è venuto a sostituirla”) e cinque bagni chimici. Chi non trova posto si accampa come può sotto gli ulivi nei terreni circostanti. Attorno, oliveti a perdita d’occhio: siamo a cinque chilometri dalla città.In Puglia lo sfruttamento in agricoltura passa da luoghi come questo. L’ex falegnameria è nota a tutti. Alle forze dell’ordine, alle istituzioni che proprio lì accanto hanno allestito il campo “regolare”, ai proprietari. Eppure da anni è il punto di riferimento dei nuovi schiavi chiamati a raccogliere le primizie che finiscono poi nei supermercati, in estate ancor più affollati di turisti. Da giugno ai primi di agosto si raccolgono angurie e pomodori. I migranti lavorano fianco a fianco con gli italiani. E se lo sfruttamento non fa differenze, a cambiare sono le condizioni di vita in cui sono costretti a vivere i ragazzi stranieri che incontriamo. Quasi tutti con alle spalle la traversata dalla Libia a Lampedusa.
IL GHETTO AI MARGINI DELLA CITTA'
L’ex falegnameria è un locale fatiscente e spettrale, senza acqua potabile né servizi, circondato da baracche tirate su alla bell’e meglio, con materassi gettati a terra dove capita. Giacigli di fortuna su cui ci si abbandona in attesa della chiamata nei campi. L’ex falegnameria è così nota da avere ormai regole proprie: gli spazi sono divisi tra senegalesi e tunisini, tanto che già prima della stagione del raccolto, le diverse etnie sanno dove sistemarsi. Lo stesso sta avvenendo con le colture: i tunisini raccolgono le angurie, i subsahariani i pomodori.
All’ingresso, una baracca ormai vuota accoglie chi entra – “Adesso è vuota, ma fino a qualche giorno fa qui ci dormivano e ci vivevano. Oggi nell’area dell’ex falegnameria ci saranno centocinquanta persone, ma fino a qualche giorno fa erano in trecento”, spiega Paolo, uno degli operatori Caritas che, grazie al progetto Presidio, attivo in dieci diocesi tra Nord e Sud Italia, quasi ogni giorno visitano i due campi per portare un minimo di assistenza, medicine, e in alcuni giorni un medico.
La vita degli immigrati nei campi della Puglia
Ai margini del vialetto d’ingresso cataste di spazzatura, rifiuti che nessuno si preoccupa di raccogliere. Poco più avanti qualcuno sta macellando una pecora. Alle narici arriva l’odore acre della carne arrostita, misto ai fumi dell’immondizia bruciata. L’ex falegnameria ha due piani, alcune pareti sfondate e quando piove non c’è rifugio: il materasso si impregna d’acqua, ci si accampa come si può. Subito dietro, due cubicoli tirati su con i mattoni presi da un vicino muro di cinta. Sull’ingresso, scritti con un pennarello, ci sono due numeri di cellulare: lo spazio è quello di un materasso, il tetto è composto da lamiere e materiali vari messi a copertura. Ci vivono le prostitute del campo: ragazze di origine africana, vere e proprie schiave del sesso che da quest’anno risiedono all’interno dell’area dell’ex falegnameria. Una di loro, qualche settimana fa, è stata ridotta per terra e presa a calci in faccia da un “cliente” che non voleva pagare la prestazione.
“MOHAMED E' MORTO NEI CAMPI, IO ERO LI'”
Poi c’è il lavoro nei campi. Di agricoltura si muore. A luglio Mohamed, un migrante di 47 anni appena arrivato a Nardò si è accasciato nell’erba. Lavorava da ore sotto il sole. Anche lui viveva nell’ex falegnameria. Saleh, poco più che ventenne e con alle spalle un viaggio nel deserto, cinque anni di lavoro in Libia e la traversata verso Lampedusa, per qualche ora è stato il suo compagno di stanza. “Era appena arrivato – racconta – gli avevo detto di prendere il materasso accanto al mio. Lui per riconoscenza si era offerto di ripulire tutta la “stanza” il giorno successivo: quando torno dai campi metto in ordine, mi aveva detto. Ma è morto la mattina successiva. Aveva già riempito tre cassoni di angurie quando all’improvviso ha alzato le braccia al cielo ed è caduto nell’erba alta. Sembrava dormisse. È morto in pochi istanti. Noi qui viviamo così – spiega dopo qualche secondo di silenzio - è una guerra. Molti di noi non vogliono essere ripresi dalle telecamere o dai fotografi perché non vogliamo far vedere a casa in quali condizioni ci siamo ridotti a vivere”.
L’ex falegnameria è circondata da una ventina di pulmini. Sono i mezzi dei passeurs, i cosiddetti “capo-neri”, che portano squadre di cinque o sei persone nei campi, spesso sotto lo scotto di una “tangente” di 300 euro pagata per poter essere inseriti a inizio stagione tra quanti lavoreranno nei mesi successivi. Basterebbe risalire ai proprietari tramite il numero di targa per capire a chi appartengono i mezzi. E invece ogni mattina il rituale dello sfruttamento si ripete senza intoppi. A fine giornata, il caporale riscuote il costo della benzina impiegata nel trasferimento (5 euro), dell’acqua (1,50 euro a bottiglia), del pasto (4,50). La retribuzione media per una giornata di lavoro dovrebbe essere di 45 euro per quattro ore di lavoro. I più fortunati ne guadagnano la metà, dopo aver lavorato dodici o tredici ore sotto il sole. Chi ha un contratto, spesso si ritrova venti giornate di lavoro dichiarate, a fronte di cento lavorate. E in alcuni casi si lavora solo per i contributi.
UN FENOMENO ATAVICO
“Il fenomeno dello sfruttamento è noto da anni – spiega Oliviero Forti, responsabile Immigrazione della Caritas Italiana – non solo al Sud ma anche al Centro e al Nord. Per anni, però queste diverse situazioni sono state sistematicamente ignorate, quasi che fossero inevitabili, per assicurarsi determinate produzioni. Ci si è chiusi in una sorta di giustificazionismo diffuso che ha reso tutti complici. In questi giorni – prosegue Forti – si è avuta notizia della morte di una bracciante italiana. Prima ancora era stata la volta, proprio in Salento, di un ragazzo africano stroncato da un malore nei campi. In questo senso, gli immigrati sono lo specchio di una fragilità sociale molto forte: grazie a loro sono riemersi problemi che riguardano anche gli italiani, problemi antichi come l’unità d’Italia”.
L'EMERGENZA DAGLI ANNI OTTANTA
“Già nel 1996 – chiosa Gregorio Manieri, uno degli operatori del progetto Presidio – a Nardò il vescovo parlava di un’emergenza immigrazione vecchia di vent’anni. E già in quegli anni si iniziava a parlare del caporalato. Lo sfruttamento dei ragazzi stranieri qui c’è almeno dal 1980. E se negli anni Novanta i braccianti si accampavano nella Villa o presso il Tribunale in costruzione, oggi sono stati relegati fuori città, senza la possibilità di avere vita sociale o relazionale. La Caritas – prosegue Manieri – ha sempre cercato di supportare i migranti con Centri di ascolto, luoghi di accoglienza, supporto ai bisogni primari di queste persone. Il progetto Presidio va in questa direzione: siamo andati nei campi, ci siamo mischiati a loro per ascoltarli e portare il nostro contributo concreto lì dove vivono. Spesso anche il semplice ascolto per loro è importante e li aiuta a ritrovare un’identità in una vita che li ha segnati sotto molti punti di vista, sia fisici che psicologici. Basti pensare – conclude – che in Calabria i caporali gli davano da bere aprendo le lattine con la canna delle pistole”.
LE MALATTIE
Ed è proprio con gli operatori del progetto Presidio che incontriamo il dottor Rocco Luci, medico ospedaliero che insieme alla Caritas visita i ragazzi nella tendopoli: “Le patologie più diffuse – spiega – sono quelle osteoarticolari, gastroenterologiche e dermatologiche, oltre a disturbi dovuti alla disidratazione. Questi ragazzi – prosegue - arrivano qui e sono sani: si ammalano per le precarie condizioni in cui vivono. Ma la sofferenza dovuta alla solitudine che patiscono– conclude – quella difficilmente si riesce a guarirla. Gliela leggi negli occhi e sono sguardi che non sorridono più”.
GLI 'ALBERGHI' DI SALVINI
Mentre ci allontaniamo dal campo, in bicicletta si avvicina Alì. Sorride. La mountain bike è una delle sessanta messe a disposizione dalla Caritas: la diocesi ha chiesto agli abitanti della città di donare le biciclette vecchie o rotte, le ha risistemate e portate nei campi, uno dei modi per bypassare i passeur e abbattere in alcuni casi i costi del trasferimento nei campi. Alì ha venticinque anni e viene dalla Costa d’Avorio. Il suo viaggio verso l’Europa l’ha portato prima in Mali, poi in Algeria e infine in Libia, dove è rimasto un anno. “Prima della guerra civile – racconta - nel mio Paese si viveva molto meglio di come viviamo qui. Questi – e indica le tende e i cinque bagni chimici del campo (che servono 300 persone) “gestito” dalle istituzioni – sarebbero gli alberghi di cui parla Matteo Salvini? Venisse a vederli, Salvini, gli ‘alberghi’ in cui viviamo”.
Alì racconta poi la traversata: “Le forze di polizia libiche fecero una retata, ci presero e ci caricarono a forza su una barca. All’epoca c’era ancora Gheddafi ed era il governo stesso che ci faceva partire. Per arrivare a Lampedusa sono stato rinchiuso nella stiva di un barcone per cinque giorni”. Dopo ha lavorato nei campi italiani a Gioia Tauro, in Calabria, dove il reclutamento avviene la mattina presso le rotonde. A Rosarno. A Catania. È arrivato fino a Parigi dove ha lavorato come magazziniere e poi è tornato in Italia, finendo a Nardò. “Tra qualche giorno penso di ripartire – conclude – andrò dove c’è lavoro, sempre nei campi”
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