Quanta rucola abbiamo mangiato sotto la Madonnina, negli anni Ottanta. Era la Milano da bere, anzi da spolpare. Era il regno felice del sindaco del risotto giallo, Carlo Tognoli, poi sostituito dal sindaco-cognato, Paolo Pillitteri, che rispondeva direttamente a Bettino, tutto in famiglia.
Bei tempi, Mani pulite era lontana. Era il 1986 quando scoppiò lo “scandalo delle aree d’oro”: era Tangentopoli ma il nome non era ancora stato inventato. Protagonista: un immobiliarista allora poco noto, di nome Salvatore Ligresti. Un piccolo giornale mensile appena nato gli dedicò la sua prima copertina: il faccione sorridente di don Salvatore montato su un busto che era Palazzo Marino. Sì, la città aveva scoperto che il Comune di Milano (sindaco del Psi, assessore all’urbanistica del Pci) aveva spostato proprio sulle sue aree il Piano casa, grande cementificazione della città in barba al vecchio Piano regolatore.
Ligresti, grande amico di Craxi, comprava a due lire aree agricole, che poi diventavano miracolosamente preziosissime aree edificabili: eccoli qua il grande “fiuto”, le straordinarie “capacità”, la fine “intelligenza imprenditoriale” di don Salvatore, allora celebrate da tutti i giornaloni.
Quel piccolo mensile si chiamava come un circolo appena nato, “Società civile”, e fece quasi da solo la campagna contro Ligresti, arrivato da Paternò senza un soldo e diventato, grazie ai suoi rapporti, il “re di Milano”. Era 27 anni fa.
Oggi don Salvatore sembra definitivamente tramontato e tutti gli sparano contro (tranne Vittorio Feltri a cui è piaciuto tanto il vino della sua tenuta). Ma dov’erano, allora, quelli che oggi lo trattano come un cane morto? I poteri che lo hanno abbandonato (primo fra tutti Mediobanca) sono quelli che lo hanno nutrito per tre decenni. Era amara, quella rucola che abbiamo dovuto mangiare negli anni Ottanta, mentre tutti attorno brindavano alla Milano da bere e difendevano “l’immobiliarista dall’intelligenza acutissima” che aveva espugnato Milano e le sue istituzioni.
Fuori dal coro erano in pochi: Massimo Fini, Giorgio Bocca, Corrado Stajano… Quelli di “Società civile” (fondata da Nando dalla Chiesa con soci come Ilda Boccassini, Camilla Cederna, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Armando Spataro, David Maria Turoldo, Giuliano Turone, Marco Vitale…) erano chiamati “moralisti”, “giustizialisti”, “qualunquisti”. Chiedevano che la politica non vendesse le istituzioni e la città al migliore offerente.
Sono passati 27 anni da allora, da quel primo segnale. Sono arrivate le inchieste di Mani pulite e poi tanti altri segnali. Ma Milano, a parte una minoranza critica, ha accolto don Salvatore, lo ha coccolato, lo ha aiutato a rialzarsi dopo ogni caduta. Fino a oggi. La ex capitale morale è fatta così: si lascia sedurre in fretta dai politici che la stregano e dagli imprenditori d’avventura che fanno girare i soldi.
Qui crebbe anche il potere di Michele Sindona. Pecunia non olet e le resistibili ascese diventano irresistibili avventure applaudite da servi e clienti. Finché non arriva il crollo: allora la musica è finita, gli amici se ne vanno. La memoria è labile, tutti pronti per il prossimo applauso.
Twitter: @gbarbacetto
il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2013
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