Quando circa trent’anni fa, Neil Young si esibisce a Roma per l’ultima volta, di fronte a 40 mila spettatori, è per lui il periodo più sperimentale della sua carriera: ha da poco dato alle stampeTrans, un disco in cui il rocker canadese si sbizzarrisce nell’utilizzo dei sintetizzatori, dell’elettronica e il vocoder rende la sua voce fredda, a tratti quasi irriconoscibile.
In molti restarono perplessi chiedendosi il perché di tale anacronistico innamoramento per il technopop. È anche per questo che è tanta l’attesa per il ritorno di Neil Young nella Capitale. È come se qualcosa fosse rimasto in sospeso. In verità, c’è una voglia smodata di assistere a un concerto vecchio stile. Ballate classiche, tipo My my, hey hey, o Like a Hurricane, che in tanti si aspettano di veder eseguita.
E invece, nel 2012 il vecchio Neil ha dato alla luce il suo primo album doppio, Psychedelic Pill, che è anche il più lungo e che testimonia l’avvenuta reunion di una delle formazioni storiche del rock della west coast, i Crazy Horse, in un disco dalle lunghe, maestose jam elettrificate, con assoli addirittura chilometrici. E il rischio di assistere a qualcosa di diverso, per chi non conosce a fondo lo spirito del rocker canadese, è altissimo. Soprattutto durante questo Alchemy Tour 2013.
Dopo il successo ottenuto in Nord America, Australia e Nuova Zelanda ecco il ritorno all’Ippodromo delle Capannelle per il Rock in Roma, dove i Crazy Horse di Frank “Poncho” Sampedro, Billy Talbot e Ralph Molina non hanno mai suonato e dove Neil Young, appunto, mancava da oltre trent’anni. I Crazy Horse – come ha scritto Neil nel suo primo e unico libro “Waging heavy peace” incautamente tradotto in italiano col titolo “Il sogno di un hippie” – sono per lui la navicella per viaggiare verso aree cosmiche che è incapace di attraversare con altri. Addirittura, scrive, alcune persone gli hanno chiesto “perché continui a suonare con loro. Non sanno suonare…”. “The answer is blowing in the wind”, risponde lui. “Con loro posso andare dovunque. Dal vivo siamo una grande band e per me suonare con i Crazy Horse è una cosa trascendentale”.
Sul palco la scenografia è minima, essenziale: sullo sfondo nero domina il simbolo dei Crazy Horse, quello del capo indiano su un cavallo in fuga, che appare anche sulle centinaia di magliette dei fan e sui manifesti. Gli occhi di un feticcio un po’ hippie, invece, sovrastano la platea, mentre la bandiera pirata che appare accanto alla batteria serve a far capire chi ci si trova di fronte. Quando fanno il loro ingresso su palco non si può non far caso a quanto il tempo abbia lasciato i propri segni sui loro corpi, ma non appena il vecchio Neil, vestito all black e con un cappello di paglia nero a coprirne i lunghi capelli bianchi, attacca con Love and only love, ci si rende subito conto che in verità i quattro sono in ottima forma.
A testa bassa, senza alcuna presentazione, inizia così il viaggio psichedelico, in una dimensione in bilico fra sogno e allucinazione. In scaletta c’è poi Powderfinger, un brano che è contro ogni forma di guerra e di violenza, contenuta nell’album del ’79 Rust Never Sleep; segue Psychedelic Pillbrano fatto di accordi e riff, caratterizzato da un’infinita sequela di pattern la cui struttura “canto-improvvisazione-canto” può durare all’infinito. L’alchimia tra Neil e il Cavallo Pazzo c’è, funziona, si vede e si sente. Ma paradossalmente, il pubblico più che essere estasiato, rapito, allucinato, sembra come in perenne attesa. La storia si ripete. È il pezzo classico che la gente s’aspetta. Ma Neil, si dovrebbe sapere è tutto e il contrario di tutto.
Neil Young e i Crazy Horse attaccano con Walk Like a Giant, introdotta dal fischio incalzante e tratta anch’essa dall’ultimo disco. Un brano a dir poco maestoso. Non parla Neil, non interagisce coi suoi fan che aspettano solo un cenno per gridare la loro gioia. Appare un po’ freddo. Gli anni è evidente, hanno lasciato il segno. E poi il successo – come egli stesso ha ammesso – gli consente anche di potersi comportare male, di scansare certe responsabilità e di crearsi una via tutta sua al mondo. Provare empatia, amarsi di nuovo per essere più fedele a se stesso e agli altri è quello che si è prefissato.
Suscitano qualche perplessità gli effetti speciali che accompagnano Hole in the Sky e che tentano di ricreare un effetto tempesta con buste di plastica sparate sul palco e un improbabile temporale proiettato sugli schermi che, se fosse stato vero, avrebbe procurato non poco sollievo alle migliaia di fans accalcati nella rovente notte di fine luglio.
Quando i Crazy Horse liberano il palco, lasciandolo interamente a Neil che porta alla bocca la sua immancabile armonica, si intuisce che il magic moment è arrivato: il pubblico esplode in un boato quando il brano che sta per iniziare è proprio la epica Heart of Gold: da brividi. Per un attimo Neil toglie anche il broncio, quando vede il pubblico più partecipe mentre canta assieme a lui.
E così si concede anche una cover, questa sì, senza bisogno di presentazioni: Blowin’ in the Wind di Bob Dylan. Deciso a fare concessioni, il vecchio Neil diventa all’improvviso generoso quando, rientrati sul palco i Crazy Horse, regala al pubblico romano una perla, l’inedita Singer Without a Song. Poi in sequenza, senza interruzioni, la navicella riparte con la monumentale Ramada Inn, sedici minuti di arpeggi e riff, la storica Sedan Delivery, contenuta anch’essa nel disco Rust Never Sleep, brano che Neil Young scrisse contro la società bigotta e ipocrita, immersa nel degrado metropolitano, la cui melodia distorta per molti è considerata il prototipo del grunge. Segue un’inaspettata Surfer Joe and Moe the Sleaze, tratta dal disco del 1981 Re-ac-tor. Quasi mai, infatti, Neil esegue dal vivo brani tratti da quell’album che non ebbe una grossa considerazione né da parte della critica né da parte del pubblico, né dallo stesso Neil Young.
Il concerto si avvia verso la chiusura, e le note di Keep on Rocking in a free world, il vero cavallo di battaglia, stanno lì a preannunciarla. Chi canta, con l’energia di un ventenne, è un uomo di 70 anni, un rocker testardo e appassionato, dotato di una voce acuta e malinconica, e di uno stile chitarristicoinconfondibile, grezzo e rabbioso. Con il suo incedere zigzagante Neil suona in modo impetuoso: sia lui che la band sembrano non avere alcuna intenzione di smettere di suonarla. Il messaggio spera sia stato chiaro: continuare a rockeggiare in un mondo che è sempre più minacciato – da estremismi, ignoranza dilagante, maleducazione, isolamento, guerre e crisi – ma che deve restare libero. Per ognuno. Lo urla a squarciagola.
L’emozione è tanta, gli occhi lucidi risplendono sui volti dei fan. Al termine del brano, la band si ritira dietro le quinte per il primo encore break. Ritornano in pista alla grande, chiudendo con due brani adatti per un gran finale di concerto: la splendida e sempreverde Cortez the Killer e quando il Cavallo Pazzo dà a Young per l’ultima volta la libertà di lanciarsi in una lunga e selvaggia cavalcata elettrica, introdotta dalla potente ritmica, ruvida e diretta, chiude il concerto la splendida Cinnamon Girl: diavolo d’un Neil Young.
A 70 anni ancora si lancia nel desiderio di incontrare la ragazza dei suoi sogni da amare, la “ragazza cannella”. Sia benedetto Neil.
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