“Sette scomode verità sull’economia italiana (che nessuno vuole guardare in faccia)”
di Stefano Feltri (208 pagine, edito da Utet, 13,60 €) indaga questi e
molti altri effetti di una crisi percepita come eterna, dallo scoppio
della bolla dei mutui subprime negli States - “lo sparo di Sarajevo”
della crisi finanziaria - fino al contagio del Vecchio Continente.
In un dibattito pubblico e politico sempre più logoro e noioso, impigliato in tic e reazioni scomposte buone solo a far scena/audience, l’autore pone una domanda che molti evitano per timore della risposta: “La questione non è quando la crescita tornerà ma se tornerà”. È infatti vero che l’Italia a differenza degli altri Paesi dell’eurozona sconta ancora un pesante deficit rispetto ai livelli pre-crisi.
Ma questo “declino”, ormai sempre più evidente nei numeri e nella realtà, è anche figlio di storiche storture dell’economia italiana.
Ed è su queste che classe politica e mondo giornalistico fanno spesso orecchie da mercante: la prima per convenienza elettorale, il secondo (forse) per pigrizia.
Avanza così l’idea che il lento ma costante declino italiano non sia una fatalità, un caso, ma sia piuttosto la conseguenza di una volontà della classe dirigente del Paese che pur di salvare gli attuali equilibri fa in modo che nulla cambi. Per pura convenienza. Viene così restituita l’immagine di un sistema incrostato da un potere calcareo che si autopreserva.
E che preferisce di gran lunga sacrificare i benefici futuri e generali in cambio di un tornaconto presente e personale o della propria cerchia.
Gli effetti sono variegati e tutti visibili, come l’assenza di meritocrazia, la scarsa produttività ma pure l’occasione mancata della rivoluzione tecnologica, o il divario sempre più ampio con gli altri Paesi dell’Unione Europea nei servizi e nell’industria del futuro. Difetti annosi del sistema italiano che si prova a mascherare con comode bugie, a cui l’ex vicedirettore del Fatto Quotidiano Feltrri prova a contrapporre sette scomode verità.
Come l’idea, spesso accarezzata dalla sinistra, che in un mercato del lavoro ancora distante dai livelli pre-crisi possa essere un rimedio il “lavorare meno lavorare tutti”. Oggi le politiche del lavoro, qualsiasi forza o partito governi, hanno come obiettivo principale quello di abbassare il tasso di disoccupazione, mentre si concentrano ben poco su un altro aspetto, la qualità del lavoro disponibile sul mercato. Anzi, il “lavorare meno e lavorare tutti” viene già applicato e non da oggi: a parità di occupati, si lavora 1,8 miliardi di ore in meno rispetto al 2008. È quindi cresciuta esponenzialmente la quota di occupati che ha contratti part-time forzati, col desiderio irrealizzato di essere impiegati a tempo pieno.
Quello appena citato è solo un esempio: stereotipi e luoghi comuni sono ormai entrati da tempo nel dibattito, e a furia di essere ripetuti sui giornali e nei talk hanno acquisito un’aura di verità ineluttabile. Viene così data per scontata, e per certi versi per giustificata, quella parte di evasione fiscale “per sopravvivenza” o “per necessità”, ad esempio. Ancora: “I cittadini vengono prima dello spread”, altra frase di indubbia efficacia comunicativa e con un certo grado di verità insita, dietro la quale però si nasconde anche lo scotto mai pagato di scelte politiche deleterie e reiterate per anni, oggi materializzatesi sotto la forma di una montagna:il debito pubblico italiano.
Nel dibattito sempre più monopolizzato da questioni economiche di elevata complessità un approccio disilluso - ma fondato su osservazione e analisi dei dati - può rivelarsi un utile strumento di legittima difesa di fronte alla logorrea populista e confusa del mondo politico. “Sette scomode verità” è quindi una sorta di giubbotto protettivo dalle “sparate” di leader a caccia di consenso, per imparare a riconoscere da subito i luoghi comuni e porre le basi per un dibattito pubblico più onesto, e quindi più sano.
In un dibattito pubblico e politico sempre più logoro e noioso, impigliato in tic e reazioni scomposte buone solo a far scena/audience, l’autore pone una domanda che molti evitano per timore della risposta: “La questione non è quando la crescita tornerà ma se tornerà”. È infatti vero che l’Italia a differenza degli altri Paesi dell’eurozona sconta ancora un pesante deficit rispetto ai livelli pre-crisi.
Ma questo “declino”, ormai sempre più evidente nei numeri e nella realtà, è anche figlio di storiche storture dell’economia italiana.
Ed è su queste che classe politica e mondo giornalistico fanno spesso orecchie da mercante: la prima per convenienza elettorale, il secondo (forse) per pigrizia.
Avanza così l’idea che il lento ma costante declino italiano non sia una fatalità, un caso, ma sia piuttosto la conseguenza di una volontà della classe dirigente del Paese che pur di salvare gli attuali equilibri fa in modo che nulla cambi. Per pura convenienza. Viene così restituita l’immagine di un sistema incrostato da un potere calcareo che si autopreserva.
E che preferisce di gran lunga sacrificare i benefici futuri e generali in cambio di un tornaconto presente e personale o della propria cerchia.
Gli effetti sono variegati e tutti visibili, come l’assenza di meritocrazia, la scarsa produttività ma pure l’occasione mancata della rivoluzione tecnologica, o il divario sempre più ampio con gli altri Paesi dell’Unione Europea nei servizi e nell’industria del futuro. Difetti annosi del sistema italiano che si prova a mascherare con comode bugie, a cui l’ex vicedirettore del Fatto Quotidiano Feltrri prova a contrapporre sette scomode verità.
Come l’idea, spesso accarezzata dalla sinistra, che in un mercato del lavoro ancora distante dai livelli pre-crisi possa essere un rimedio il “lavorare meno lavorare tutti”. Oggi le politiche del lavoro, qualsiasi forza o partito governi, hanno come obiettivo principale quello di abbassare il tasso di disoccupazione, mentre si concentrano ben poco su un altro aspetto, la qualità del lavoro disponibile sul mercato. Anzi, il “lavorare meno e lavorare tutti” viene già applicato e non da oggi: a parità di occupati, si lavora 1,8 miliardi di ore in meno rispetto al 2008. È quindi cresciuta esponenzialmente la quota di occupati che ha contratti part-time forzati, col desiderio irrealizzato di essere impiegati a tempo pieno.
Quello appena citato è solo un esempio: stereotipi e luoghi comuni sono ormai entrati da tempo nel dibattito, e a furia di essere ripetuti sui giornali e nei talk hanno acquisito un’aura di verità ineluttabile. Viene così data per scontata, e per certi versi per giustificata, quella parte di evasione fiscale “per sopravvivenza” o “per necessità”, ad esempio. Ancora: “I cittadini vengono prima dello spread”, altra frase di indubbia efficacia comunicativa e con un certo grado di verità insita, dietro la quale però si nasconde anche lo scotto mai pagato di scelte politiche deleterie e reiterate per anni, oggi materializzatesi sotto la forma di una montagna:il debito pubblico italiano.
Nel dibattito sempre più monopolizzato da questioni economiche di elevata complessità un approccio disilluso - ma fondato su osservazione e analisi dei dati - può rivelarsi un utile strumento di legittima difesa di fronte alla logorrea populista e confusa del mondo politico. “Sette scomode verità” è quindi una sorta di giubbotto protettivo dalle “sparate” di leader a caccia di consenso, per imparare a riconoscere da subito i luoghi comuni e porre le basi per un dibattito pubblico più onesto, e quindi più sano.
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