Secondo i giudici contabili non ci sono basi legali per richiedere penali insostenibili.
La
richiesta di 23 miliardi quale indennizzo in caso di rescissione della
convenzione fra Anas e Autostrade per l’Italia per la gestione di circa
3.000 chilometri di strade a pagamento non ha basi legali perché prevede
indennizzi abnormi rispetto alla normale prassi commerciale.
Il
giudizio è contenuto in una Relazione sulle concessioni autostradali
approvata dalla Corte dei Conti a fine novembre e resa nota ieri.
Nell’indagine si passano in rassegna gli aspetti economici, legali di
questi particolari contratti con cui lo stato affida a società private
la gestione di infrastrutture, come le autostrade, consentendo alle
imprese di ripagarsi con i pedaggi.
La concessione è come un contratto
di affitto che prevede oneri e diritti per i due contraenti, ad esempio
l’obbligo di restituzione integro del bene, regola le modalità della
locazione, le tempistiche il pagamento del canone, prevede anche la
possibilità che il contratto venga interrotto anzitempo in caso di
violazione da parte di uno dei due contraenti.Di queste convenzioni il governo italiano ne ha firmate 25 con 22 società.
Sono state messe a punto dal ministero dei Trasporti e da quello
dell’Economia e dall’Anas, per il governo, e da stuoli di avvocati e
manager per le società e quasi sempre sono state oggetto di contenziosi.
La
relazione della Corte dei conti arriva sul tavolo del governo, proprio
mentre il presidente del consiglio Giuseppe Conte e i suoi ministri
stanno decidendo se e come risolvere la concessione firmata con
Autostrade per l’Italia, la società del gruppo Benetton, imputandole la
responsabilità per il crollo del ponte Morandi a Genova. Ma il governo
deve fare i conti con quel contratto che stabilisce, anche in presenza
di una responsabilità del concessionario, l’obbligo di un indennizzo
enorme e superiore ai venti miliardi a carico dello stato. Così la
relazione della Corte dei Conti arriva al governo come una sorta di
parere legale firmato dai maggiori esperti di responsabilità erariale.
Per capirsi se il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, desse
seguito alla richiesta del gruppo veneto sarebbero i magistrati
contabili a dovere accertare e sanzionare l’eventuale danno allo stato
per un pagamento non dovuto.
Analizzando
le clausole, previste dalle convenzioni tipo, i magistrati contabili si
sono accorti che “i casi di scioglimento anticipato del rapporto
concessorio siano stati oggetto di una disciplina per più aspetti
speciale ed eccentrica rispetto a quella legale (in particolare rispetto
a quella prevista dal Codice civile e dal codice dei contratti
pubblici) e all’apparenza molto ‘sbilanciata’ dal lato e in favore della
concessionaria”. Oltre a prevedere molte cautele e ostacoli crescenti
alla risoluzione del contratto, “la convenzione condiziona ogni ipotesi
risolutoria al pagamento di una somma pecuniaria che può essere,
“assolutamente ingente, se non addirittura insostenibile per l’erario”,
senza neanche indicare esplicitamente “violazione degli obblighi di per
sé da considerare gravi, quali crolli e disfacimenti”, che possano
giustificare un’uscita da parte del concedente, ovvero lo stato.
Tutto
questo, continua la Relazione, se per un verso, “rivela una qualche
‘cedevolezza’ del contraente pubblico in sede di contrattazione di
clausole rilevanti della convenzione, comportando un assetto
contrattuale asimmetrico che pone la parte pubblica in una posizione di
debolezza, per altro verso, solleva il tema della validità di queste
clausole contrattuali alla luce della disciplina legale e, in primo
luogo, di quella civilistica”. E qui la corte ricorda che il codice
civile “dispone la nullità di patti che escludono o limitano
preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave”.
L’autoassoluzione preventiva, del proprietario o dell’affittuario, non è
prevista né è prevedibile.
Clausole
speciali e asimmetriche che i concessionari hanno sempre difeso in virtù
della specificità di questo tipo di contratto. Le società autostradali,
dicono, devono pianificare investimenti pluridecennali durante i quali
grazie ai pedaggi ripagano i prestiti e guadagnano. L’interruzione
anticipata del contratto metterebbe la società davanti ad un fallimento
certo: senza più poter contare sugli introiti dei caselli dovrebbero
continuare a fronteggiare le richieste di rientro dei finanziatori,
pagare fornitori e personale. Queste le motivazioni dei concessionari,
ricordate dalla corte, per giustificare lo squilibrio nelle clausole di
risoluzione a sfavore dello stato e a vantaggio dei concessionari. Una
deroga rispetto a quanto previsto dal diritto civile e dal codice degli
appalti che secondo Aiscat, l’Associazione dei concessionari, troverebbe
il fondamento giuridico anche nell’approvazione legislativa dei
contratti oggi in essere. Una tesi che la Corte non fa propria sposando
il punto di vista del gruppo di lavoro del ministero delle
Infrastrutture e trasporti: “Si è dell’avviso che non valga a ‘salvare’
dette clausole dalla nullità manifesta il fatto che la convenzione sia
stata, a suo tempo, approvata per legge, in quanto l’approvazione ha
riguardato la fase integrativa della efficacia e non i suoi contenuti”,
cioè per legge è stato solo approvato l’allungamento nel tempo di quei
contratti non il loro contenuto.
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