Il 25 marzo 1977, sul Messaggero, Federico Caffè dice che la
crisi attuale dell'economia internazionale è la più grave che ci sia
stata dal 1929.
Inviato da Leo Essen coku.it
Nel 29, sul piano internazionale, si richiese una equa
ripartizione degli oneri, soprattutto in merito agli squilibri della
bilancia dei pagamenti.
Nonostante ciò, dice, non mi è accaduto di veder
menzionato né il suggerimento rivolto alla Germania da un autorevole
economista americano, Laurence Klein, perché il marco sia rivalutato del
10 per cento (nel quadro di una politica di «buon creditore», non meno
essenziale di quella del debitore che «deve mettere la sua casa in
ordine» [oggi si direbbe «fare i compiti a casa»]); né il recente
rapporto annuale della Banca Nazionale del Belgio, che è tutta una
serrata filippica contro la fissazione di limiti rigidi all’offerta di
moneta o all’espansione del credito interno complessivo.
Si tratta di
criteri tutt’altro che indiscussi e da accettare passivamente: il che
significa, appunto, confondere la cooperazione con l’assoggettamento.
Il 30 luglio del 1977 - Messaggero – perde la pazienza: In
questi giorni dell’anno, dice, con la puntualità degli incendi dei
boschi e degli annegamenti balneari, un rapporto sulla situazione
finanziaria di un certo numero di imprese pone in evidenza lo stato,
come al solito preagonico, della parte prevalente del sistema
industriale italiano. Il lancio pubblicitario segue, anch’esso, un
rituale consueto.
Vi è qualcosa di profondamente offensivo di ogni sentimento umano di
equità scoprire che, dice, questo lancio pubblicitario ha lo scopo di
addebitare all’aumento del costo del lavoro la causa ultima di tutti i
nostri mali.
Il 2 gennaio del 77, di fronte alla notizia che, nell’area OCSE, i
disoccupati avevano raggiunto la cifra considerevole di 15 milioni, con
eleganza e rispetto, non lesina mazzate neppure a Einaudi, secondo il
quale bisognava lasciar fallire la Banca italiana di sconto affinché i
responsabili fossero chiamati a rispondere dei loro errori, e affinché i
contribuenti non dovessero sborsare nemmeno una lira (allora la cifra
era significativa) per le altrui malefatte.
Che si sia trattato di una posizione estremamente miope e che l’episodio
rientri tra le concause della nascita del fascismo, dice Caffè, forse
oggi è consentito dire, per quanto siamo sempre il Paese nel quale desta
scandalo parlar male di Garibaldi e affini. Vi è, ad ogni modo,
l’attenuante che, dice, all’epoca in cui Einaudi scriveva, la Banca
centrale non aveva ancora compreso esattamente la sua funzione di
prestatrice di ultima istanza; e che la parabola delle capacità
autoregolatrici del sistema di mercato costituiva la quintessenza del
sapere economico.
Purtroppo, dice Caffè, come a suo tempo la Banca centrale non era ancora
consapevole della sua funzione di prestatrice di ultima istanza, così
oggi lo Stato non si è ancora reso conto che l’assolvimento efficace del
suo compito di occupatore di ultima istanza è condizione stessa non
della sopravvivenza del sistema economico, ma della sopravvivenza di un
assetto democratico.
L’unico, vero, inequivocabile, fallimento è, dice, quello di un sistema
economico che non sia in grado di creare posti di lavoro adeguati per
coloro che ne hanno necessità. Ed è un fallimento che, malgrado la
nostra innata propensione ad autodenigrarci, non riguarda soltanto il
nostro Paese e le sue gravi carenze funzionali, ma investe la comunità
internazionale nel suo complesso, con delusione insanabile di quanti
hanno creduto ed operato per una sua armonica cooperazione.
Le nostre capacità di autodenigrazione, dice, sono giunte al punto da
assecondare le accuse di elargire generosi sussidi alle esportazioni,
pur essendo ben noti il protezionismo amministrativo e di altro genere,
che si registra, ad esempio, negli Stati Uniti d’America.
Oppure da far
apparire cosa giusta e condivisibile la dichiarazione di un membro del
direttorio della Banca centrale della Germania occidentale che, parlando
di recente a Francoforte, ha detto testualmente che l’ulteriore
riduzione dell’inflazione tedesca (minima rispetto a quella degli altri
Paesi) dipenderà dall’esito delle negoziazioni salariali e dalle
ripercussioni dei disavanzi previdenziali.
Non c’è poi da sorprendersi
che la cooperazione internazionale tra partners che la pensano in questo
modo possa dar origine a 15 milioni di disoccupati.
Il 15 aprile 1975, sempre a proposito degli squilibri internazionali, e
in particolare delle asimmetrie presenti nella Comunità europea,
Caffè
stigmatizza l’euforia delle istituzioni politiche italiane alla notizia
della riacquistata piena legittimità del nostro Paese a far parte della
Comunità europea vista la recente revoca del deposito cauzionale sul
valore delle importazioni. Un’euforia che rivela quell’acritico
conformismo liberista che ha sempre contraddistinto l’atteggiamento del
nostro Paese nei confronti dei partners comunitari. Sul piano
strettamente economico, dice, questo atteggiamento si manifesta
nell’accettazione rassegnata nei confronti delle posizioni
persistentemente eccedentarie di alcuni Paesi della Comunità. Purtroppo,
dice, gli organi d’informazione concorrono spesso ad accreditare questa
visione deformata (e retorica) dell’«economia aperta»; come se questa
non comportasse impegni verso l’economia interna del Paese, oltre che
verso la comunità internazionale.
Il 4 settembre 1978, sempre sul Messaggero, avverte che una
svolta effettiva, nel confermare la nostra esigenza di «stare
nell’Europa», dovrebbe sentire il dovere di non tacere che ciò
costituisce un destino inevitabile, ma tutt’altro che invidiabile. È di
appena ieri, dice, la pungente considerazione di P.A. Samuelson, uno dei
luminari dell’economia mondiale, il quale ha detto senza mezzi termini
che la stabilità monetaria della Germania è di quelle che strangolano e
non di quelle sulle quali può edificarsi una solida economia mondiale.
Come è facile notare, le parole di Caffè, riportate alla lettera,
sembrano scritte oggi da un Rossobruno qualsiasi o da un cosiddetto
Sovranista.
Cosa vuol dire? Che non cambia mai niente? Che tutto è destinato a
ripetersi in eterno, che bisogna rassegnarsi? Oppure, più semplicemente,
che le datazioni e le periodizzazioni che usiamo sono starate?
Se fossimo su un campo di battaglia la periodizzazione corrisponderebbe all’esatta cognizione del dispiegamento delle truppe.
La scienza
storica ha bisogno di far credere, prima di tutto a se stessa, che la
periodizzazione corrisponde a una misurazione di un elemento oggettivo,
il quale, comunque lo si misuri, rimane tale e quale. Tutt’al più si
tratta di affinare o di cambiare strumento o metodo di misurazione
(cosiddetta metodologia della ricerca), in quanto lo strumento è
soggetto al tempo, mentre il passato, essendo appunto passato, sarebbe
immune alla temporizzazione. Mentre la scienza storica affastella i
fatti in un tempo omogeneo e vuoto stabilendo un nesso causale fra
momenti diversi della storia, senza accorgersi che nessun fatto, perché
causa, è già perciò storico (Hume); mentre la scienza storica
neutralizza la storia e seppellisce i morti, il marxismo sa che anche i
morti non saranno al sicuro dal nemico, perché diventeranno ciò che sono
stati solo dopo, postumamente, in seguito a fatti che possono essere
divisi da millenni. Il passato reca in sé un indice temporale che lo
rimanda alla redenzione (rivoluzione), esso si riordina a partire dal
futuro.
Ma non da un futuro omogeneo e vuoto, il futuro della scienza
economica, dell’econometria, della previsione e dell’indovino.
Caffè non era un veggente.
È noto, dice Benjamin (18^ tesi di filosofia della storia), che agli
ebrei era vietato investigare il futuro.
Ciò li liberava dal fascino del
futuro, dal fascino della previsione a cui si sottomettono quelli che
cercano informazioni presso le statistiche e le econometrie.
Ma non per
questo, dice Benjamin, il futuro diventò per gli ebrei un tempo
omogeneo e vuoto. Poiché ogni secondo, in esso, era la piccola porta da
cui poteva entrare il Messia.
------
* Fedirico Caffè, Contro gli incappucciati della finanza, 2013
Nessun commento:
Posta un commento