infosannio.wordpress.com (Gaia Van Der Esch e Tommaso Cariati – espresso.repubblica.it)
Avere un figlio all’estero, con il quale si comunica via Skype, via Whatsapp.
È ormai una consuetudine per molte famiglie italiane che prendono atto dell’assenza di opportunità di carriera in Italia e accettano la dipartita, con grande sofferenza, al punto che molti italiani sono più preoccupati per i propri ragazzi che emigrano, anziché dell’arrivo di migranti.
Conferma l’osservatorio European Council on Foreign Relations, il primo think tank paneuropeo per la ricerca e promozione di un dibattito informato a favore dello sviluppo dei valori europei, che più della metà degli italiani sarebbe a favore di misure di controllo sull’emigrazione.
Allora perché i nostri politici, giornalisti ed esperti si preoccupano di chi arriva anziché invece porre un argine all’esodo di massa dei giovani?
Ad andarsene sono tantissimi giovani ad alto
potenziale, con qualifiche accademiche elevate, per nulla valorizzati in
patria, ma apprezzati all’estero. Sono specializzati in tutti i
settori, provengono da tutta Italia, poco più della metà trova casa in
Europa, gli altri migrano negli Stati Uniti e in Australia.
Difficile stabilire con esattezza quanti siano. I
dati Istat dicono che nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui
30mila laureati. Ma in base all’analisi da noi effettuata il volume
degli espatri potrebbe essere addirittura doppio. Infatti l’Istat, che
utilizza i dati Aire, cioè l’anagrafe degli italiani all’estero,
sottostima almeno della metà i numeri di chi parte. Prova ne è il fatto
che nel 2017, per i 36 paesi Ocse, l’Aire ha registrato 76mila partenze,
mentre i paesi di arrivo hanno registrato 146mila italiani. Quindi,
seguendo questa logica, i giovani laureati partiti nel 2018 sono almeno
60mila, e quelli partiti negli ultimi 5 anni (tra il 2013-2018) sono
200mila al netto degli arrivi.
Se uniamo i dati del report sui cittadini mobili, con
i dati dell’Ocse sul contingente di italiani lavoratori nelle 36
economie più grandi, scopriamo che ci sono più di 600 mila laureati
attualmente vivono e lavorano in questi 36 paesi. Sono circa il sei per
cento di tutti i laureati italiani: una percentuale altissima se
paragonata alla Francia (quattro per cento) o alla Spagna (due per
cento).
Il Rapporto Italiani nel Mondo 2019 della Fondazione
Migrantes riporta, utilizzando principalmente dati Istat, che il 40 per
cento di chi è partito nel 2018 ha fra i 18 e i 34 anni. Ma anche che
questo dato sta peggiorando con un aumento di 8,1 punti percentuali
delle partenze 18-34, mentre nello stesso periodo tutte le categorie di
età over 35 sono diminuite. Questi fattori contribuiscono al generale
invecchiamento della popolazione italiana.
Il problema diventa ancora più grave ci si concentra
sui laureati. Dice l’Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione Europea,
che in Italia solo il 17 per cento della popolazione ha una laurea,
percentuale di gran lungo inferiore alla media Ue, che si aggira attorno
al 30 per cento. Significa che mancano all’appello almeno sette milioni
di laureati rispetto agli altri paesi europei.
E come se non bastasse, molti di coloro che
conseguono il titolo di studio lasciano l’Italia. Infatti il report sui
cittadini Europei in movimento dentro l’Unione, racconta che il 30 per
cento degli italiani all’estero ha una laurea. Stiamo quindi perdendo
una grande fascia di chi può far crescere il nostro paese, di chi sa
innovare, di chi può contribuire, con le proprie energie e competenze, a
tirare fuori l’Italia dalla spirale di crisi – economica, demografica,
educativa e occupazionale – in cui si è avviluppata. Le competenze
italiane vengono invece sfruttate dai paesi in cui i giovani emigrano.
Siamo partiti in cerca di opportunità e responsabilità
Gli expat sono partiti per tanti motivi. Oltre allo
studio, c’è chi parte per trovare lavoro (62 per cento), per avventura
(13 per cento), per amore o motivi personali (6 per cento). I dati
parlano chiaro: l’Italia è un Paese dove i giovani non si sentono
valorizzati come risorsa, e si organizzano per fare (spesso a
malincuore) le valigie alla ricerca di un futuro migliore.
Quello che spinge all’emigrazione non è la ricerca di
un lavoro qualunque, perché qualcosa (anche se non quello che vogliamo)
si trova a casa, bensì un’occupazione degna. Con un guadagno, delle
prospettive e delle responsabilità in linea con il valore e
l’investimento in formazione da parte delle famiglie e dei giovani. Chi
se ne va non riesce a vedere futuro in un paese che accetta – secondo
Eurostat – che oltre il 20 per cento dei suoi ragazzi fra i 15 e i 24
anni non faccia nulla: né studia né lavora. Un numero molto più alto
rispetto agli altri paesi europei.
Altri partono per curiosità e ambizione, in cerca di
occasioni di sviluppo personale che l’Italia non offre. Chi termina gli
studi, infatti, sente l’esigenza di sfruttare ciò che ha imparato e di
apprendere qualcosa in più, di lavorare in un ambiente stimolante, con
colleghi all’altezza e risorse che offrano una prospettiva di carriera.
Il Paese delle università più antiche al mondo non ha
neppure una propria università nella top 100 delle università mondiali,
secondo i ranking di QS.
Le opportunità di avere successo come imprenditore,
nel paese delle piccole e medie imprese, sono praticamente nulle. Il
famoso fondo di venture capital, Atomico, scrive nel suo report annuale
sulle startup europee che ci sono 99 neonate società con un valore di
più di un miliardo di dollari – le cosiddette “unicors” -, ma nessuna di
queste si trova in Italia. Sono in Estonia, Ucraina, Romania,
Repubblica Ceca, ben due in Spagna. Ma zero in Italia. L’Italia investe
in ricerca l’1,3 per cento del proprio pil, il prodotto interno lordo,
sorpassata da Repubblica Ceca e Slovenia. Il nostro paese ha tagliato la
spesa per la ricerca del 21 per cento tra il 2006 e il 2016, secondo il
Libro Bianco realizzato dal Gruppo 2003.
Siamo partiti per vivere in società giuste e per giovani
Appena arrivati all’estero molti expat hanno trovato
una società dove essere giovani è un valore aggiunto. Per capirlo, basta
guardare gli investimenti che i paesi fanno in educazione e in
pensioni: secondo Eurostat, per ogni euro speso in educazione, l’Italia
ne spende 3,5 in pensioni, il secondo numero più alto d’Europa (questa
volta il primato ce l’ha la Grecia). E per ogni euro in università, ne
spende 44 in pensioni, di gran lunga il numero più alto. I cugini
francesi ne spendono 22. I nonni, senza volerlo o saperlo, stanno
facendo la guerra ai nipoti.
Il mondo del lavoro è altrettanto colpevole. L’Ocse
stima che in Italia i laureati fra i 25-34 anni guadagno solo il 10 per
cento in più dei loro coetanei senza una laurea. Per capirci, in
Inghilterra il valore economico di una laurea è del 35 per cento e in
Francia quasi il 45 per cento. Questo dato diventa molto preoccupante
quando si scopre che, al contrario, i laureati italiani fra i 55-64 anni
in Italia, hanno un “bonus” sui guadagni fra i più alti d’Europa, quasi
al 65 per cento, mentre in Inghilterra non si va oltre il 45 per cento.
Quindi il mercato del lavoro italiano penalizza i giovani e valorizza
gli anziani, anche a parità di titolo di studio.
Gli expat hanno anche trovato una qualità di vita più
alta all’estero – con grande stupore vista la convinzione degli
italiani che l’Italia sia il miglior posto dove vivere al mondo.
Eurostat conferma che la qualità di vita nel Bel Paese è tra le più
basse in Europa: manchiamo di dinamismo culturale e sociale. Gli
aneddoti si sprecano, dalla decadenza dei parchi pubblici a quella dei
nostri teatri e centri storici. All’estero si investe e si rispetta la
cosa pubblica.
Non i giovani emigranti hanno trovato una qualità di
vita elevata, ma anche un contratto sociale più giusto. Società eque,
con poca corruzione e nepotismo. Dove tutti pagano le tasse, che sono
alte come o più che in Italia. Inutile dire che l’Italia è tra i
peggiori paesi in termine di corruzione percepita, misurata da
Transparency International. All’estero la meritocrazia funziona, e chi
espatria ne beneficia.
Anche nell’evasione resta capione, con un tax gap del
13,5 per cento e più di 150 miliardi l’anno secondo gli economisti
Raczkowski e Mroz. Considerando che il nostro deficit è di 40-50
miliardi di euro l’anno, in Italia sembra esserci un gruppo di furbetti
che vive a spese di tutti gli altri, tagliando le gambe ai giovani di
oggi e alle future generazioni.
La soluzione alla crisi: perché siamo necessari all’Italia
Nonostante la nostalgia per la terra, la
preoccupazione delle famiglie e i dati sconcertanti, la fuga dei
cervelli non è certo l’unico problema a cui fa fronte l’Italia. Anzi, ne
è una conseguenza.
Basta pensare agli ultimi 25 anni. Negli anni ‘90,
l’Italia aveva un pil procapite più alto dell’Inghilterra e si ritrova
nel 2019 superata dalla Spagna. Siamo cresciuti del 7,5 per cento in 25
anni. Addirittura la Grecia è cresciuta più di noi (18 per cento).
Questa crisi infatti presenta un’opportunità unica:
l’Italia ha un contingente enorme di giovani formati, che parlano
lingue, con esperienze lavorative internazionali, che hanno imparato
lavorando al fianco di leader mondiali nei vari settori, e che
potrebbero risolvere – tornando – tanti problemi del bel paese.
Crisi economica: Un laureato che parte è una perdita
pesante per l’Italia. Confindustria stima che una famiglia spende
165mila euro per crescere ed educare un figlio fino ai 25 anni. Mentre
lo stato ne spende 100mila in scuola e università. Se prendiamo i dati
ISTAT e li raddoppiamo (vista la discrepanza di dati) questo rappresenta
una perdita di investimenti attorno ai €25-30 miliardi annui.
Investimenti di cui beneficiano i nostri vicini tedeschi, francesi e
inglesi, con tasse, innovazione e crescita.
Parlando appunto di tasse si calcola, partendo da
dati Ocse ed Eurostat, che le casse del tesoro perdono 49 miliardi die
uro l’anno di gettito fiscale, di cui più di 25 miliardi di euro dai
laureati all’estero. Denaro che potrebbe coprire il nostro deficit
annuale. Questo volume non considera tutto l’indotto dell’attività
economica che sarebbe generato se i nostri giovani tornassero
dall’estero.
Crisi lavorativa: Secondo Eurostat gli italiani hanno
una vita lavorativa di circa 31 anni, in Inghilterra è di quasi 40. La
nostra età pensionabile, però, è in linea con gli altri paesi europei,
il che ci dice che il problema è all’ingresso: in Italia si comincia a
lavorare troppo tardi, in media a più di 30 anni. Solo il 70 per cento
degli italiani fra i 25-34 anni in Italia lavora, contro più dell’80 per
cento dei paesi del Nord.
Gli expat quindi hanno esperienze di lavoro spesso
più alte rispetto ai coetanei rimasti in Italia, e un loro ritorno
rappresenterebbe una leva importante per innovare e importare nuove
idee.
Crisi educativa e produttiva: Le competenze di
giovani all’estero permetterebbero, nell’ipotesi di un ritorno in massa,
di migliorare il gap di educazione che l’Italia ha nei confronti degli
altri paesi europei. Secondo l’Ocse, l’Italia ha il più alto gap
educativo tra emigrazione e immigrazione. In altre parole, esportiamo
gli italiani più educati e importiamo gli stranieri che hanno studiato
meno. Questo è estremamente dannoso per il futuro economico del paese
dove invece di innovare in tecnologia, ingegneria, scienza e attività
economiche “complicate”, ci si concentra su attività più semplici come
ristorazione, turismo ed edilizia. Anche su questo i numeri parlano
chiaro. La produttività dell’Italia, nona di 32 paesi Ocse nel 1995, è
cresciuta in 25 anni del 6,8 per cento, il numero più basso di tutti e
si ritrova oggi diciottesima.
Crisi demografica: Il rimpatrio, a giuste condizioni
(stabilità e sostegno socio-economico), contribuirà a risolvere il
preoccupante gap demografico, diminuendo il tasso di dipendenza ormai
alle stelle. Secondo Eurostat, per ogni persona in età pensionistica, in
Italia ce ne sono 2,8 in età lavorativa (16-65). La Francia e la Spagna
ne hanno 3,3 e 3,4. È inutile chiedersi per l’ennesima volta “chi
pagherà le pensioni nel futuro”. Però è importante ricordare che la
ricchezza di tutti è creata da “pochi”, ossia da chi è in età
lavorativa. Se continuiamo a spingere all’emigrazione i più produttivi
fra gli italiani, non ci saranno speranze per mantenere il tenore di
vita a cui siamo abituati.
Senza di noi non ce la possiamo fare: un appello al nostro paese e ai giovani all’estero
Un paese senza i suoi giovani è un paese senza futuro. Allora, come far rientrare gli expat?
Il sondaggio del centro studi di PWC ci dice che l’85
per cento dei giovani all’estero pensa che il paese in cui vivono offra
migliori opportunità lavorative che l’Italia. Nonostante ciò, il 74 per
cento considererebbe un ritorno a parità di condizioni. L’opportunità è
chiara ed esiste.
L’Italia lo sa, e si sta muovendo per farci tornare:
le città, le regioni e il governo stanno unendo le forze con imprese,
associazioni ed università. Gli esempi non mancano: Milano ha lanciato
‘Talents in motion’, la regione Sardegna ‘Master and Back’, e al livello
nazionale il decreto-legge sul rientro dei cervelli viene rinforzato
continuamente per incentivarci a tornare, di cui la più recente modifica
si trova nell’articolo 5 del decreto crescita del 28/5/2019.
Ma la verità è che queste agevolazioni fiscali sono
poco conosciute dagli italiani che potrebbero usufruirne. Secondo il
sondaggio del Gruppo Controesodo, il 21,43 per cento degli Italiani
all’estero non la conosce e il 40,95 per cento la conosce solo
vagamente. Viste le discrepanze di dati sugli italiani all’estero,
sarebbe il minimo che le istituzioni cominciassero a raccogliere dati
affidabili e ad assicurarsi che i loro giovani siano al corrente dei
loro diritti.
Inoltre, dei pochi italiani che sono al corrente di
queste agevolazioni, il 75 per cento non le considera sufficienti per
rientrare. I dati lo dimostrano: dei 14.000 italiani rientrati tra il
2011 e il 2017 grazie alle agevolazioni, il 50 per cento è già
ripartito. Perché?
Troppi ostacoli nell’accedere alle agevolazioni, che
in più sono di corta durata. Allungare la durata dei benefici fiscali,
oltre ai 5 anni, ed espandere i nuovi benefici a chi è tornato
usufruendo di leggi antecedenti potrebbe raddoppiare il numero dei
giovani pronti a tornare, secondo il Gruppo Controesodo. Questo sarebbe
un punto di partenza per il Governo.
Ma sono ripartiti anche per le poche opportunità di
crescita in Italia. La cultura lavorativa e l’attitudine del sistema
verso i giovani sono i veri elementi che ci trattengono dal tornare a
casa, o che ci spingono a ripartire. Investire fondi per l’impresa, la
scienza, l’educazione è un inizio ed è necessario. Ma quello che serve è
un cambiamento radicale di cultura lavorativa ed educativa, difficile
da raggiungere ma che può succedere – se ognuno di noi se ne fa carico.
Quindi torniamo a noi, e usiamo una metafora: nelle
comunità macrobiotiche, il 20 per cento della popolazione guida l’80 per
cento dei flussi. Se torniamo sparpagliati, ci disperderemo, non
troveremo chi ha avuto le stesse esperienze e ha quindi la stessa
visione del futuro. Dobbiamo tornare insieme, in massa critica, ed
aiutarci a vicenda con i tanti giovani che sono rimasti e già lottano.
Sta a noi combattere le ingiustizie e le inefficienze
dell’Italia, salvare il Bel Paese cambiando quello che non va. Sta a
noi ora tornare per consentire alla prossima generazione di immaginare
un futuro, fin da subito, nel paese più bello del mondo. Quindi iniziamo
da qua, dandovi degli spunti di riflessione ed invitandovi ad un
dialogo che possa generare soluzioni e riportarci a casa.
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