A farci sospettare della buona qualità morale e politica della nonviolenza
potrebbe essere una breve sintesi del passato e del presente della sua
più autorevole sacerdotessa e del suo apostolato in favore della ferocia
europea.
ilsimplicissimus2.com Anna Lombroso
Parlo della Bonino simpaticamente ondivaga tra Berlusconi che
l’ebbe al suo fianco per 12 anni, e le diversamente “opposizioni”, tra
i curdi e Erdogan, ben collocata sul seggio parlamentare dal ’76 e
sulla poltroncina in prima fila di quelli che applaudirono alla
inevitabile guerra dei Balcani, e che, tanto per parlare di una
ristrutturazione democratica della comunicazione politica, sollecitò nel
2010 il voto dei radicali in Vigilanza Rai in favore della chiusura
dei talk prima delle elezioni, appoggiando così la campagna del
Cavaliere contro Santoro e Anno Zero.
A farci capire che c’è una certa differenza tra nonviolenza e pacifismo,
basterebbe appunto pensare che quelli che oggi si fanno interpreti di
un risveglio delle coscienze per una ecumenica accoglienza dei disperati
che giungono qui in cerca di una vita più degna, dileggiati e umiliati
da una manica di incresciosi e beceri buzzurri, non sono mai scesi in
piazza contro le guerre che hanno prodotto la cacciata di intere
popolazioni dalle loro case.
E meno che mai manifestano contro quella
guerra solo apparentemente incruenta che induce all’esodo con armi
diverse, ma ugualmente di distruzione di massa, gli abitanti di città
che devono essere convertite in alberghi o centri commerciali diffusi, i
residenti di zone industriali decotte mai bonificate e tragicamente
tossiche.
Perché la aggressiva e minacciosa veemenza che condannano non è solo
quella dei leader di formazioni partitiche che la usano come deterrente
alla partecipazione e al dialogo, che la impiegano per nutrire paura e
diffidenza, ma è quella di chi troppo inascoltato in geografie
trascurate, marginali, brutte e quindi esposte a brutture aggiuntive, dà
loro fiducia e consenso.
Insomma quello che in molti temono è l’impeto popolare dettato dalla
scontentezza, che verbalizza con i brontolii delle pance vuote e che
mette a rischio quel poco che è rimasto a convincere i detentori di
superstiti privilegi e di scampate sicurezze, di essere superiori e
esenti per merito naturale o per fidelizzazione all’ideologia dei
potenti.
Non vogliono ricordare o sapere che quella veemenza è stata il motore
della ribellione di quelli che cantavano Fischia il Vento e pure
l’Internazionale, come colonna sonora del riscatto di un popolo contro
la sopraffazione nazi fascista, opponendo quando necessario, e
necessario lo era a onta di Pansa o Giordano Bruno Guerri, le armi della
riscossa a quelle del totalitarismo, per liberarci dall’oppressore che
teneva le masse sotto il tallone di ferro degli assassinii, delle
torture, dei ricatti, ma anche della povertà, delle disuguaglianze,
della corruzione.
Ci vuol poco a capire che il grido di guerra che non piace alla gente
che piace e che “fa tendenza” in piazza o all’apericena, è quello della
collera di classe, che smentisce la fine dell’esistenza delle classi
sociali, confermata invece dall’estendersi delle aree del disagio, è
quello della rabbia del popolo, non a caso chiamata populismo, anche se
quelli che lo deplorano non sanno cosa sia e lo censurano da quando
hanno avuto la rivelazione che la radice del nome “pop” non si riferisce
a un genere musicale.
E non stupisce che abbiano l’aperto consenso di una rete di sostegno
nella chiesa che ha rimosso la teologia della liberazione per esaltare
più gradevoli e addomesticati slogan pauperisti che non sarebbero
spiaciuti nemmeno a Peron o Videla, che si associa ai movimenti
dell’amore che si riuniscono in piazze come fossero le mete delle gite
sociali e delle feste padronali, essendo state espropriate della
funzione di teatri della protesta e del conflitto, grazie al susseguirsi
di misure di ordine pubblico indirizzate a penalizzare non solo gli
stranieri ma anche gli ultimi indigeni, in modo da rassicurare i
penultimi.
E d’altra parte non c’è da aspettarsi di meglio da chi sostituisce la
militanza col presenzialismo, la solidarietà con la carità e le
convergenze parallele di buona memoria democristiana all’antagonismo di
chi ritiene non a torto che sia violenza il furto dei beni comuni,
l’imposizione di opere inutili e dannose, l’acquisto di armi e
dispositivi bellici distogliendo risorse a scuola e ricerca, lo
spostamento di attività produttive in siti dove è più profittevole
sfruttare e inquinare, la manipolazione delle leggi per favorire un
padronato che inquina, avvelena e usa l’intimidazione e il ricatto per
consolidare le sue regole illegittime.
Il fatto è che nessuno vuole studiare e conoscere il passato, si vive
in un eterno presente che nega il futuro e nel quale tutto quello che
non parla la lingua del potere e dell’establishment viene condannato
come ingiusto e tutto quello che invece li sorregge è esaltato come
giusto. E’ qualcosa che ha tratto vigore dalla volontà aberrante di
“pacificazione” che accomuna i ragazzi di Salò ai fratelli Cervi, che
dà una interpretazione della storia distorcente per equiparare gli
attentati dei partigiani alle stragi di Marzabotto o Sant’Anna di
Stazzema, che disapprova i movimenti di lotta, a cominciare da quello di
liberazione palestinese, per non aver scelto la strada della
nonviolenza, dimostrando che l’unica violenza concessa e approvata è
quella dei regimi.
Eppure il gotha della nonviolenza e i suoi leader hanno sempre detto
che bisogna guardarsi da chi si disarma per giustificare l’impotenza a
difendere le sue ragioni e la ragione degli altri intorno.
E che viene
un momento nel quale più che dei lupi occorre aver paura delle pecore.
Nessun commento:
Posta un commento