L'economista Emiliano Brancaccio scrive un libro sul Nobel che va (quasi) sempre ai liberisti e in Svezia, di tutta risposta, decidono quest’anno di far vincere tre studiosi della povertà: “L'avevamo previsto”, replica. Di economia e potere – ma anche di Italia e di Europa – hanno discusso all'università Roma Tre con l’autore un Mario Monti in versione progressista e un Giorgio La Malfa keynesiano di ferro: un dibattito frizzante tra due liberali e un marxista.
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Non è possibile naturalmente in una breve cronaca dar conto di
tutte le interessanti argomentazioni esposte dai relatori e negli
interventi di un pubblico che era prevalentemente di economisti. Chi
però volesse ascoltare tutto il dibattito può trovarlo a questo link.
micromega Carlo Clericetti
Qualche ora dopo che la Banca di Svezia aveva comunicato i nomi dei vincitori del Nobel per l’economia di quest’anno, il 14 settembre, ad Economia di Roma 3 si è svolto un dibattito di alto livello sul libro di Emiliano Brancaccio e Giacomo Bracci “Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica”. Il libro esamina a chi e perché sia stato conferito il riconoscimento: ne emerge che sono stati scelti quasi soltanto studiosi di orientamento neoclassico, quelli comunemente definiti neoliberisti. Persino Jo Stiglitz e Paul Krugman, che oggi avversano quelle dottrine, sono stati premiati per studi precedenti assai più allineati alle teorie dominanti. L’economia, dice Brancaccio, crea “il discorso del potere”, quello che serve per giustificare determinate decisioni, e dunque spesso dal potere è influenzata.
Qualche ora dopo che la Banca di Svezia aveva comunicato i nomi dei vincitori del Nobel per l’economia di quest’anno, il 14 settembre, ad Economia di Roma 3 si è svolto un dibattito di alto livello sul libro di Emiliano Brancaccio e Giacomo Bracci “Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica”. Il libro esamina a chi e perché sia stato conferito il riconoscimento: ne emerge che sono stati scelti quasi soltanto studiosi di orientamento neoclassico, quelli comunemente definiti neoliberisti. Persino Jo Stiglitz e Paul Krugman, che oggi avversano quelle dottrine, sono stati premiati per studi precedenti assai più allineati alle teorie dominanti. L’economia, dice Brancaccio, crea “il discorso del potere”, quello che serve per giustificare determinate decisioni, e dunque spesso dal potere è influenzata.
Quest’anno però sono stati premiati studiosi che si occupano di
come combattere la povertà, che non sembrerebbero allineati con le
posizioni dei potenti. Ma forse la spiegazione è nelle parole di Mario
Monti, che ha detto di aver saputo di “un certo nervosismo” a Stoccolma
quando si è saputo del libro in preparazione: la scelta può essere stata
una risposta indiretta alla critica di Brancaccio e Bracci, un
tentativo di dimostrare che non è vero che per vincere il Nobel bisogna
essere seguaci del “pensiero unico”.
Un “pensiero unico” che non alberga tra le mura di Economia di Roma
3, ha tenuto a precisare Roberto Ciccone nella sua introduzione:
accanto alle teorie dominanti, che non si possono certo ignorare,
trovano posto anche pensatori di orientamento assai diverso come Keynes e
Sraffa.
E sul pensiero di Keynes si è concentrato l’altro relatore, Giorgio
La Malfa. Dapprima ricordando come delineò la differenza fondamentale
tra i due grandi filoni di pensiero in cui si dividono gli economisti:
gli uni – i classici e neoclassici – postulano che il mercato, seppure
nel lungo termine e con errori, tenda all’equilibrio, gli altri – gli
“eretici”, tra cui Keynes si colloca – non credono che il sistema sia in
grado di auto-regolarsi, e questo implica che lo Stato debba avere un
ruolo attivo. Keynes non era però un sostenitore della spesa pubblica
purchessia: era anzi fortemente contrario a quella improduttiva, tanto
che in un altro scritto sostenne che andava introdotto l’obbligo del
pareggio di bilancio per la spesa corrente (“Cosa diversa da quello che
noi abbiamo messo in Costituzione”, ha chiosato La Malfa).
Ma quando è necessario, lo Stato deve essere pronto a sostenere la
domanda con investimenti pubblici, anche in deficit. In una situazione
di crisi, si può aspettare che nel lungo periodo – forse, perché nessuno
può realmente saperlo – torni l’equilibrio? “E’ meglio sbagliare perché
faccio qualcosa oppure perché non faccio nulla?”, si è chiesto
retoricamente La Malfa. “A mio parere, è questo, nel mondo, il
discrimine tra la sinistra e la destra”.
Monti ha invece ricordato come, negli anni ’70, fosse colpito da
due tipi di comportamenti che – ha detto – sarebbero stati all’origine
della “grande anomalia italiana, quella del debito pubblico”. La prima,
che lo Stato intervenisse nelle trattative sindacati-imprenditori e
fosse sempre pronto a colmare con soldi pubblici la differenza tra ciò
che gli uni chiedevano e gli altri erano disposti a concedere; la
seconda, che la Banca d’Italia, che pure ha sempre meritato la massima
stima, fosse disponibile a finanziare con moneta ogni richiesta del
Tesoro, pur rinnovando ogni 31 maggio il monito all’equilibrio dei conti
pubblici.
Su questo punto, nel dibattito che è seguito, è intervenuta
Antonella Stirati. “I dati mostrano che la nostra spesa pubblica si è
sempre mantenuta un po’ al di sotto della media europea”, ha detto.
“Dunque non è a quello che si deve attribuire l’aumento del debito
pubblico, quanto piuttosto alla spesa per interessi. E’ lecito pensare
che, con il cambio legato alla partecipazione allo Sme, i tassi siano
stati tenuti elevati per attirare capitali, per mantenere l’equilibrio
della bilancia dei pagamenti”. La successiva replica di Monti non è
apparsa molto convincente. La questione non è tanto il livello della
spesa, ha detto, quanto la sua composizione (e su questo più o meno
tutti concordano) e se alla fine si provoca un deficit che fa salire il
debito. Giusto, ma allora la conclusione logica avrebbe dovuto essere
che non c’era troppa spesa, ma troppo poche entrate.
“Credo di non aver mai usato il termine ‘austerità’ – ha proseguito
poi il senatore a vita – anche se a detta di molti l’ho praticata.
Certo, il mio governo ha fatto una politica restrittiva, ma in quella
situazione, con i mercati che stimavano al 40% la probabilità di default
dell’Italia, quale altra scelta sarebbe stata possibile?”. E per
sottolineare che aveva agito in quel modo solo perché lo riteneva
inevitabile ha raccontato di un colloquio con il coriaceo ministro delle
Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, in cui aveva sostenuto che non
investire con tassi a zero o addirittura negativi, come erano in
Germania, era anche quello, “non facendo”, un tradire le future
generazioni.
Monti ha proseguito nella sua insolita versione progressista
osservando che “Una sintesi keynesiana ha bisogno del pungolo del
pericolo socialista” e che, dopo la caduta del Muro, il sistema
capitalistico aveva dato il peggio di sé; e ha aggiunto di non capire
perché partiti che si dicono di sinistra “considerino terribile” usare
il sistema fiscale, “cosa che un capitalista americano accetterebbe
pienamente”, per ottenere l’uguaglianza dei punti di partenza, con
imposte fortemente progressive e anche imposte sul patrimonio. Ha
concluso dichiarando di preferire l'Europa del Trattato di Roma,
imparziale rispetto alla proprietà pubblica o privata, a quella di
Maastricht, che invece favorisce la seconda. Non è importante la
proprietà, ha affermato, è importante far rispettare la concorrenza.
“Il professor Monti ha detto qualche giorno fa che ci vorrebbe una
Greta per il debito pubblico”, ha ricordato Brancaccio. “Ma io non credo
che sarebbe una buona cosa. Danneggiare l’ambiente configura un
conflitto tra giovani e anziani, ma applicare la stessa impostazione al
debito significa non tener conto della domanda effettiva, e questo può
addirittura provocare un rovesciamento della questione: se gli anziani
non generano una domanda effettiva sufficiente – diretta agli
investimenti, in questo sono anch’io d’accordo – i giovani ne subiranno
le conseguenze. E gli investimenti pubblici si possono fare in
disavanzo”.
Su un altro punto Brancaccio ha marcato la sua differenza di
impostazione. “Dopo il decreto ‘Salva-Italia’ – certo, forzato dalle
circostanze – i tassi sul debito esplosero di nuovo, mostrando che il
loro andamento non dipende tanto dal debito e dal deficit, quanto
piuttosto dalla disponibilità della politica monetaria ad evitare un
rischio di cambio, cioè di evitare una rottura dell’euro. Certo, forse
senza quella manovra non ci sarebbero state le condizioni politiche che
hanno permesso a Draghi di pronunciare il famoso ‘whatever it takes’, e
in questo senso potremmo dire che Monti è stato il demiurgo che ha reso
possibile quella mossa: sostegno della Banca centrale, ma solo in cambio
di politiche restrittive, riforme strutturali, deflazione salariale. Ma
chiedo: ora che la politica monetaria ha sparato tutte le sue cartucce,
se venisse un’altra crisi si potrebbe ripetere la stessa impostazione?
Io credo che una cosa del genere segnerebbe la fine del progetto
europeo”.
Prima delle repliche dei relatori è stato dato spazio ad interventi
dalla sala. Tra questi, da segnalare quello di Elio Cerrito di
Bankitalia, che ha osservato come la storia economica da oltre un secolo
a questa parte abbia mostrato che l’intervento pubblico volto alla
gestione della domanda è un “elemento essenziale” per la stabilità e il
progresso del sistema economico.
Rispondendo agli interventi della sala, Monti ha poi precisato che
non è tanto il debito che lo preoccupa, ma quale spesa lo alimenti: non è
un problema se è una spesa che genererà una crescita del Pil. Quanto a
ridurre il livello delle disuguaglianze, che il senatore giudica
esageratamente alte, una tassazione patrimoniale “non sarebbe sovversiva
del capitalismo, lo aiuterebbe a continuare a vivere meglio. Da
vent’anni si è cominciato a dire che lo Stato ‘mette le mani in tasca’
agli Italiani: questa, secondo me, è la negazione del concetto di
Stato”. A Brancaccio ha risposto ricapitolando gli eventi del 2011-12 e
ricordando che il “whatever it takes” è stato possibile solo perché si
era raggiunto poco prima un accordo politico sulla sua necessità,
mettendo in minoranza la Germania che aborrisce quel tipo di politica
monetaria.
Di nuovo La Malfa. “Sono convinto che questa Europa non funzioni
bene, e anche che non funzionerà meglio. La Germania non cambierà la sua
politica, è inutile aspettarci sostegni dall’esterno. Siamo soli, e
uscire dall’euro avrebbe un costo elevatissimo. Quindi dobbiamo agire, e
non lo stiamo facendo. Non si può pensare di bloccare il debito
pubblico e contemporaneamente aumentare gli investimenti, difendere lo
Stato sociale e sostenere i redditi, bisogna scegliere. Finora sono
stati sacrificati gli investimenti, invece bisognerebbe dire che per
qualche tempo i redditi individuali non possono aumentare”.
“Come ha più volte ripetuto Jo Stiglitz – ha osservato Brancaccio
nelle conclusioni – il capitalismo può fare a meno della democrazia”.
Non è affatto impossibile che le attuali dinamiche economico-sociali
possano sfociare in qualche genere di fascismo, come accadde nella prima
metà del secolo scorso.
(17 ottobre 2019)
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