La natura non è il regno dell’uomo che dovrà dominarne le forze. Difficilmente, lo stesso Francis Bacon, oggi la penserebbe ancora così. Il climate change e l’estinzione di massa, i cui effetti sono già oggettivamente visibili, non riescono a mutare per ora il comportamento dei governi, tantomeno quello dei poteri dominanti.
comune-info.net/ Enzo Scandurra
Non possiamo nasconderci, tuttavia, che se le multinazionali che controllano la produzione, i grandi istituti finanziari e bancari, i gruppi di potere, i governi e i politici, decidessero oggi di cambiare davvero rotta, ne seguirebbe una crisi economica di enorme dimensioni che coinvolgerebbe l’intero pianeta. Per questo vanno avviati subito una vera riconversione dell’economia (o come la si vuol chiamare) e un ripensamento sostanziale degli stili di vita e del rapporto con la natura (cosa mangiare, come muoversi e perfino come vestirsi). Se la nuova “lotta di classe” per l’accaparramento di risorse sempre più scarse non condurrà prima alla deflagrazione finale di una guerra mondiale, presto o tardi gli indicatori economici con i quali misuriamo il benessere di una nazione saranno delle scatole vuote, inefficaci per misurare lo stato di salute dei popoli. Ma intanto, a proposito di definizioni, che nome dare a quello che appare un nuovo conflitto planetario tra possessori e predatori delle risorse naturali e coloro i quali ne sono privati fino a rischiare la sopravvivenza?
In
molti sostengono sbrigativamente, come è d’uso in questi tempi di
memoria breve, che la lotta di classe è finita e che per capire il
conflitto dei tempi presenti è necessario abbandonare le vecchie
categorie novecentesche. Di fatto, essa si è frantumata e resa
apparentemente invisibile. Ma che nome dare allora a quello che appare un
nuovo conflitto planetario tra possessori e predatori delle risorse
naturali e coloro i quali ne sono privati fino a rischiare la propria
sopravvivenza?
Per il momento tale lotta si svolge tra i negazionisti del riscaldamento globale, spalleggiati da politici cinici e indaffarati in ben altre cose, scienziati e istituti di ricerca ben pagati dai grandi gruppi che controllano le produzioni e i nuovi movimenti in difesa del clima: Friday for Future e Extinction Rebellion.
Ma, a ben osservare, il conflitto sulle risorse che attraversa tutti i
paesi tende sempre più a diventare una lotta senza quartiere, come
dimostrano le sempre più numerose manifestazioni che si svolgono in
tutto il mondo contro i rischi derivanti dal cambiamento climatico.Quali sono le ragioni, infatti, che spingono i migranti (ipocritamente suddivisi in migranti economici e profughi di guerra) a rischiare la vita per approdare ai lidi dell’Occidente se non la crisi climatica che desertifica le loro terre rendendole aride come un deserto? E perché la crisi economica innescata in tutto l’Occidente non accenna ad essere superata come avveniva in passato ricorrendo a ricette classiche dell’economia? E quali sono le cause delle tante guerre sparse sul pianeta, se non l’accaparramento delle risorse: terre, acqua e petrolio? E quali sono le cause più vistose della crisi delle nostre grandi città, se non quelle dei rifiuti, dell’inquinamento prodotto in parte dall’accoppiata petrolio/macchina, del traffico caotico, del consumo di suolo? E come spiegare, infine, il conflitto sempre più aspro tra produzione/lavoro e ambiente (emblematico il caso di Taranto)?
Tanti conflitti sparsi e diffusi in tutti i paesi e in tutte le grandi città del mondo configurano una nuova geopolitica tra centro (luogo del comando e del potere reale) e periferia (luogo dei diseredati). Nell’Occidente questo conflitto si esprime tra i gruppi che detengono il potere economico, da una parte, e, dall’altra, le vittime della tirannia dei mercati che impone loro di consumare merci ed energia. Cioè, in altri termini e in ultima analisi, li fa scivolare lungo il piano inclinato della miseria non solo economica in cambio di qualche gadget tecnologico alla portata di tutti.
Il climate change e l’estinzione di massa, i cui effetti sono già oggettivamente visibili, non riescono a mutare per ora il comportamento dei governi tantomeno quello dei poteri dominanti se non nel senso di tentare timidamente di orientare i prodotti e i consumi verso obiettivi di inefficace sostenibilità. Se anche oggi stesso (il che è del tutto improbabile), le multinazionali che controllano la produzione, i grandi istituti finanziari e bancari, i gruppi di potere, i governi e i politici, decidessero di cambiare rotta per tentare di ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici e il degrado del pianeta, ne seguirebbe una crisi economica di enorme dimensioni che coinvolgerebbe l’intero pianeta. Per questo è necessario avviare da subito una riconversione dell’economia mirata agli obiettivi di una vera sostenibilità: energetica, sociale, economica. Occorre anche un radicale ripensamento dei nostri stili di vita e del nostro rapporto con la natura (cosa mangiare, come muoversi e perfino come vestirsi) scegliendo un percorso di vera sostenibilità.
Se la nuova “lotta di classe” per l’accaparramento di risorse sempre più scarse non condurrà prima alla deflagrazione finale di una guerra mondiale, presto o tardi gli indicatori economici con i quali misuriamo il benessere di una nazione (pil, debito sovrano, crescita) saranno delle scatole vuote, inefficaci per misurare lo stato di salute di interi popoli. Una lotta che non prevede, alla lunga, vincitori e vinti, ma solo pochi (e ricchi) sopravvissuti che lotteranno tra loro per continuare a consumare le ultime risorse in via di esaurimento. E che dovranno lottare contro un cambiamento climatico ostile al pari di altri viventi non umani.
La lunga (e prometeica) questione di dominare la natura (iniziata con Bacone e tanti altri scienziati del Seicento e Settecento) si pone, nei tempi presenti, nel tentativo di riuscire a dominare il nostro dominio.
Articolo pubblicato anche su il manifesto
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