Siamo noi la crisi del capitale
21 / 2 / 2019
Per la rubrica Il pensiero alla radice, proponiamo questa traduzione di un testo di John Holloway, uscito originalmente su Red Pepper. Holloway, irlandese trapiantato in Messico, è uno degli esponenti più noti dell’Open Marxism, corrente teorica nata nel Regno Unito. Il suo pensiero combina elaborazioni teoriche dell’autonomismo di scuola italiana e americana con la critica della forma-valore di scuola tedesca (1). I suoi volumi più recenti sono In, Against, and Beyond Capitalism (PM Press, 2016) e We Are the Crisis of Capital (PM Press 2017). Traduzione di Lorenzo Feltrin.
Siamo noi la crisi del capitale, e ne siamo fieri. Basta ripetere che la crisi è colpa dei padroni. Questa idea è pericolosa oltre che assurda.
Ci relega alla posizione di vittime.
Il capitale è una relazione di dominio. La crisi del capitale è una crisi del dominio. I padroni non riescono a comandare efficientemente. Ma noi scendiamo in piazza a dirgli che è colpa loro! Che cosa significa, che dovrebbero dominarci meglio?
È meglio optare per la spiegazione più semplice e dire che, se c’è una crisi nella relazione di dominio, questo è perché i dominati non si stanno piegando abbastanza. L’inadeguatezza della nostra subordinazione è la causa della crisi.
Sempre più veloce
Questa è l’argomentazione di Marx nella sua analisi della caduta tendenziale del saggio di profitto: la legge del valore è la regola del sempre più veloce. Il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla, ed esso va costantemente riducendosi. Per produrre valore, i lavoratori devono lavorare sempre più veloce, altrimenti (o in congiunzione) il medesimo effetto può essere ottenuto tramite l’introduzione di macchinari. Ma se delle macchine vengono introdotte nel processo produttivo, i lavoratori devono in ogni caso lavorare sempre più veloce per ammortizzare il loro costo.
In altre parole, se il saggio di sfruttamento rimane costante, il saggio di profitto tende a cadere nella misura in cui la composizione organica del capitale aumenta assieme all’aumento dell’importanza relativa delle macchine nel processo produttivo. Il capitale può evitare la caduta del saggio di profitto solamente tramite il costante aumento dello sfruttamento.
Non bisogna vedere lo sfruttamento come un qualcosa di statico. C’è una pressione costante per andare più veloce, una costante trasformazione del lavoro nel capitalismo. Questo significa non solo un’intensificazione dello sfruttamento sul posto di lavoro ma anche una sempre crescente subordinazione di tutti gli aspetti della vita alla logica del capitale.
L’esistenza stessa del capitale è un incessante giro di vite. La crisi è la semplice manifestazione del fatto che la vite non si sta stringendo su di noi abbastanza velocemente. Sta incontrando resistenza da qualche parte: forse resistenza nelle strade, forse resistenza organizzata, ma non necessariamente – può anche trattarsi della resistenza di genitori che vogliono giocare con i propri bimbi, di amanti che vogliono passare un’altra ora a letto, di studenti che ritengono di poter perdere del tempo a criticare, di umani che sognano ancora di essere umani. Siamo noi la crisi del capitale, perché non ci chiniamo abbastanza.
In tale situazione, ci sono in sostanza due sole possibilità. La prima è dire che ci dispiace, scusarci per la nostra scarsa subordinazione e chiedere più lavoro: “Più impiego, per favore sfruttateci di più e noi lavoreremo più duro e più veloce, subordineremo al capitale ogni aspetto delle nostre vite, lasceremo perdere sciocchezze infantili quali amare e pensare”. Questa è la logica del lavoro astratto, la logica inefficace della lotta per il lavoro contro il capitale.
Il problema di questa opzione è che, adottandola, non solo perdiamo la nostra umanità ma riproduciamo anche il sistema che ci sta distruggendo. Se aiutiamo con successo il capitale a superare la sua crisi, il “più veloce-più veloce” continuerà, la subordinazione di tutta la vita – umana e non – ai requisiti della produzione di valore si intensificherà. E poi verrà un’altra crisi e avanti così fino a che l’umanità (come probabilmente buona parte di fauna e flora) sarà estinta.
Rifiuto di chinarsi
L’alternativa è quella di abbandonare la lotta per il lavoro e dichiarare apertamente che la lotta contro il capitale è necessariamente lotta contro il lavoro, contro il lavoro astratto che crea il capitale, contro il “sempre più veloce” della produzione di valore. Così facendo, invece di scusarci, affermiamo con orgoglio la nostra mancanza di subordinazione, il nostro rifiuto di chinarci davanti alla logica distruttiva del capitale. Siamo fieri di essere la crisi del sistema che ci sta uccidendo.
La seconda opzione è più difficile. Nel capitalismo, la sopravvivenza materiale dipende dalla nostra subordinazione alla logica del capitale. Se non ci adeguiamo, come possiamo tirare a campare? Senza una base materiale, l’autonomia dal capitale è assai difficile, appare come una impossibilità logica. Eppure, è in questa impossibilità che noi viviamo, è con questa impossibilità che dobbiamo fare i conti senza tregua.
Ogni giorno tentiamo di conciliare la nostra opposizione al capitale con il nostro bisogno di sopravvivere. Alcuni di noi possono farlo con relativa comodità, trovando lavori (per esempio nelle università) che ci permettono di creare spazi di lotta contro il capitale mentre al contempo riceviamo un salario. Altri alzano la posta in gioco, abbandonando (per scelta o per necessità) ogni forma di impiego e dedicando tutte le loro energie ad andare contro e oltre la logica del capitale, sopravvivendo alla bell’e meglio, occupando case o terre da coltivare, o vendendo libri anticapitalisti, o creando strutture alternative di sussistenza materiale, o chissà che altro.
In un modo o nell’altro, ma sempre contraddittoriamente, cerchiamo di aprire crepe nel dominio capitalista, spazi o momenti in cui viviamo il nostro sogno di essere umani, spazi o momenti in cui diciamo al capitale: “No, tu qui non hai potere, qui agiamo e viviamo in base alle nostre decisioni, in base a ciò che consideriamo necessario o desiderabile”.
Non c’è niente di straordinario in questo. Quasi tutti lo facciamo: non solo i compagni, non solo i lettori di siti di sinistra, ma chiunque dedichi energie a creare relazioni sociali su basi diverse: amore, amicizia, solidarietà, cooperazione, divertimento. Questa è la nostra umanità e la nostra salute (o pazzia). Lo facciamo sempre, eppure siamo sempre sull’orlo del fallimento, a un passo dal baratro.
Questa è la natura della lotta: nuotiamo contro la corrente del capitale. Non siamo mai al sicuro dalla disperazione, ma è qui che vive la speranza, a un passo dalla disperazione. Questo è un mondo senza risposte, di camminare domandando, di esperimenti.
La crisi ci mette di fronte a queste due possibilità. O prendiamo l’autostrada della subordinazione alla logica del capitale – ben sapendo che questa via porta all’autodistruzione dell’umanità –, oppure prendiamo i sentieri rischiosi di inventare mondi diversi, qui e ora e attraverso le crepe che apriamo nel dominio capitalista. E nell’inventare nuovi mondi, gridiamo forte e chiaro che siamo noi la crisi del capitale, siamo la crisi di questa corsa verso la distruzione dell’umanità, e ne siamo fieri.
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