Si
sente spesso ripetere, da parte di illuminati opinionisti liberali, che
la lotta di classe non è altro che un residuato radioattivo del XX
secolo, e che è ormai giunto il momento di rimboccarsi le maniche e
lavorare insieme, imprenditori e lavoratori fianco a fianco, per
accrescere la produttività delle imprese italiane e attirare (perché
no?) investitori internazionali. Questo comportamento cooperativo
garantirebbe, sostengono costoro, il benessere di tutti, operai e datori di lavoro.
Peccato che siano gli stessi imprenditori a smentire tale
visione idilliaca ed edulcorata dei rapporti produttivi, ricorrendo a
ogni mezzo, lecito e illecito, pur di ristabilire la propria
preponderanza.
È ben noto, infatti, che i coraggiosi capitani
d’industria, quando si trovano di fronte a una classe lavoratrice restia
a sottomettersi, non esitano a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di
schiacciare le rivendicazioni degli operai e ricondurli a miti consigli.
Come racconta il Corriere della Sera.
«Ci
hanno aggredito con bastoni e pistole elettriche. Erano una quindicina,
tutti di una società che si occupa di sicurezza nei locali notturni».
Così la testimonianza di un gruppo di lavoratori di tre cooperative di
facchinaggio che forniscono i loro servizi a una società del Gruppo Faro
collegata a Zara, brand spagnolo del patron Amancio Ortega, sesto fra i
più ricchi del mondo con un patrimonio di 62,7 miliardi di dollari,
secondo Forbes. Dall’inizio di marzo in tutta Italia sono cominciati
stati di agitazione e scioperi nel settore del facchinaggio, gestito da
altre società. A Roma, mercoledì mattina, momenti di tensione si sono
registrati in un magazzino di merce in lunga sosta nella zona di Castel
Giubileo. I lavoratori hanno denunciato un’aggressione da parte dei
buttafuori fatti intervenire dal proprietario per allontanarli. Sul
posto alcune pattuglie della polizia e le ambulanze del 118. «Quattro
lavoratori sono finiti in ospedale, fra loro uno con un’abrasione a un
braccio e un altro con la frattura di una mano», spiegano i sindacalisti
della Cgil che poi nel pomeriggio hanno incontrato i rappresentanti
dell’azienda nei loro uffici all’Esquilino. «Anche qui si sono portati
dietro i buttafuori. Una situazione surreale», raccontano. Intanto la
polizia indaga per ricostruire i fatti accaduti qualche ora prima.
Alcune persone sono state identificate dagli agenti.
Questa notizia testimonia, laddove ve ne fosse ancora bisogno, che siamo davanti a un fenomeno molto pericoloso: un vero e proprio salto di qualità nell’atteggiamento
dei padroni verso le rivendicazioni dei lavoratori.
Essi si sono
sentiti in diritto di impartire a delle guardie private l’ordine di
utilizzare armi vietate allo scopo di difendere i propri profitti messi a
repentaglio da uno sciopero per condizioni di lavoro più degne. Siamo
su una china sulla quale il concetto di ordine pubblico tende a diventare molto labile, in favore di un pericoloso concetto di ordine e disciplina che ricorda, molto da vicino, il fascismo.
Prova
di questo cambiamento di rotta e di una sostanziale acquiescenza del
Governo nei confronti di tali episodi è il disegno di legge di riforma
della legittima difesa, che tra pochi giorni sarà, con tutta
probabilità, legge dello Stato e che potrebbe portare questa tendenza
verso episodi di repressione ancora più pesanti. La riforma in questione, infatti, tende a legittimare sempre più l’uso della violenza per la difesa della proprietà privata.
Pubblicamente si parla di difesa contro furti e rapine, ma è facile
immaginare che questo approccio fai da te alla giustizia possa essere
esteso anche a picchetti, scioperi e occupazioni.
Si
badi bene: non si tratta di allarmismo, ma della naturale conseguenza
di quella che è stata l’evoluzione delle norme sulla legittima difesa.
L’attuale formulazione, infatti, sulla quale la riforma dei giorni
nostri va a incidere rendendo più larghe le maglie della presunzione di
legittima difesa (e, al contempo, rendendo più difficile l’applicabilità
delle norme sull’eccesso colposo di
legittima difesa), è figlia di un processo che era già iniziato negli
anni scorsi, per la precisione nel 2006, ai tempi del terzo governo
Berlusconi. All’epoca, attraverso le legge 59/2006, fu aggiunto, tra le altre cose, un comma (il terzo) all’articolo 52 del codice penale per
fare in modo che le norme che consentono ai soggetti di esercitare la
legittima difesa in caso di violazione del proprio domicilio valgano
anche “all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività
commerciale, professionale o imprenditoriale”. Come una fabbrica, un
centro commerciale o, per l’appunto, un magazzino merci.
Sebbene
la riforma attuale non vada a incidere sulla possibilità, già prevista,
da parte degli imprenditori, di utilizzare armi a difesa dei mezzi di
produzione, essa testimonia l’affermarsi, complici le roboanti dichiarazioni di
Salvini, di una temperie culturale che valuta il diritto alla difesa
della proprietà privata allo stesso livello (se non a un livello più
elevato) del diritto all’incolumità dei lavoratori e della lotta per i
diritti sociali ed economici.
L’episodio di Castel Giubileo sembra
purtroppo andare proprio in questa direzione. Gli autori
dell’aggressione (o, più probabilmente, i loro mandanti) dovevano
infatti essere convinti di avere una qualche legittimità nelle loro
azioni. L’uso del taser (un’arma potenzialmente letale) dopo pochi mesi dalla recente approvazione dell’utilizzo di tale arma, in via sperimentale, presso le forze dell’ordine,
non può non aver risentito della campagna mediatica sull’argomento,
evidentemente considerata come un “via libera” alle azioni, anche
violente, a difesa della proprietà e dei privilegi delle classi
dominanti.
Questa escalation repressiva pone in maniera preoccupante l’attualità del fascismo, inteso come sistema di repressione e controllo di
ogni forma organizzata di dissenso da parte delle classi subalterne nel
capitalismo. Bisogna, infatti, fare una riflessione sul fascismo inteso
non solo come razzismo o violenza di strada, ma sulla vera molla
storica del fascismo come progettualità repressiva, cioè la reazione
violenta e spaventata della classe padronale in conseguenza delle
mobilitazioni dei lavoratori. Per reprimere scioperi e sovversivi, negli
anni ‘20 furono usate le camicie nere per portare la repressione dove
le forze dell’ordine non riuscivano ad arrivare, utilizzando modalità e
livelli di violenza che le forze dell’ordine non potevano apertamente
applicare. Il fascismo storico fu l’apice di questa tendenza in un
periodo di estreme tensioni sociali e di concreto pericolo di
un’evoluzione rivoluzionaria in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia.
Il neofascismo stragista, nell’epoca delle tensioni sociali esplose dopo
l’autunno caldo del 1969, fu ancora lo strumento di repressione usato
dal capitale per sedare il conflitto sociale.
Il fascismo, è bene ricordarlo, è il cane da guardia rognoso e idrofobo della borghesia.
Normalmente questa lo tiene in gabbia, dandogli magari in pasto qualche
avanzo da rosicchiare, ma, non appena sente il bisogno di stroncare sul
nascere le rivendicazioni dei lavoratori, scioglie il guinzaglio.
Al
di là delle metafore è importante tenere a mente quanto fascismo e
capitale siano legati. Al di là dei proclami bellicosi e del culto della
violenza fine a sé stessa, la vera natura del fascismo è
intrinsecamente legata alla difesa reazionaria dei privilegi dei ricchi,
contro ogni cambiamento o progresso sociale, e alla violenza mirata
contro i lavoratori. Ai nostri giorni, l’aspetto più immediato spesso
espresso dalle varie sfaccettature del neofascismo è rappresentato
dall’odio e dalle spedizioni punitive contro tutti coloro che sono
considerati deboli o emarginabili, come immigrati o omosessuali. Oggi si
parla spesso di questo tipo di aggressioni, sulle quali c’è un minimo
livello di sensibilità nella società. La questione è, tuttavia, più
ampia e l’azione di fanatici estremisti che se la prendono con i diversi
o i diseredati della terra ha un aspetto complementare nel ruolo che i
fascisti giocano a difesa degli interessi economici dei padroni.
Non
si può prescindere infatti dall’aspetto reazionario più generale del
fascismo sia come fenomeno storico sia come rigurgito effettivo o
potenziale espresso, in forme nuove, nel contesto della società
contemporanea. Combattere il fascismo nelle sue diverse espressioni
implica in primo luogo comprenderne la natura più profonda e gli scopi. I
fascisti non sono semplicisticamente il nemico di alcuni emarginati. I
fascisti, in quanto manovalanza repressiva agitata dal capitale al
bisogno, sono nemici di tutti i lavoratori e di tutti coloro che
vorrebbero migliorare il mondo in cui viviamo. Antifascismo non
significa indignarsi leggendo sul giornale le bravate di alcuni “ragazzi
di destra”; non significa celebrare, a scadenze predefinite e in
maniera ipocrita, le tappe storiche della Liberazione. Antifascismo
significa lottare attivamente contro le azioni fasciste, l’oppressione e
l’emarginazione; significa solidarietà tra lavoratori e tra lavoratori e
studenti. Criticare una sola faccia del fascismo, dimenticandone l’altra, è inutile, se non deleterio.
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