martedì 26 marzo 2019

Leggere Il capitale: Due guide eretiche

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Marx

Leggere Il capitale: Due guide eretiche

Recensione di Reading Capital Politically (1979) di Harry Cleaver e An Introduction to the Three Volumes of Karl Marx’s Capital (2012) di Michael Heinrich

4 / 5 / 2018
Karl Marx è nato il 5 maggio di duecento anni fa, ma il capitale domina ancora innumerevoli aspetti delle nostre vite e sta trascinando il pianeta lungo la via della devastazione ambientale. Per la rubrica Il pensiero alla radice, pubblichiamo questa comparazione di due guide alla lettura de Il capitale: Reading Capital Politically di Harry Cleaver e An Introduction to the Three Volumes of Karl Marx’s Capital di Michael Heinrich. La doppia recensione delinea le impalcature interpretative dei due autori, mettendo in rilievo la centralità del femminismo autonomo nel pensiero di Cleaver e della Neue Marx-Lektüre nell’approccio di Heinrich.
Karl Marx è nato a Trier il 5 maggio di duecento anni fa. Per commemorare questo evento, la Repubblica popolare cinese ha regalato alla cittadina tedesca una gigantesca statua di bronzo dell’autore de Il capitale. A mio parere, il bel gesto ci ricorda un punto di grande importanza: è molto pericoloso prendere Marx e il marxismo troppo sul serio. Eppure, Marx resta – a scapito dei molti che negli ultimi due secoli lo han dato per spacciato – un punto di riferimento difficilmente aggirabile per chi si pone il problema di un cambiamento radicale della società in senso libertario ed egualitario, specie per chi lo fa all’interno di realtà politiche organizzate. Il capitale determina ancora innumerevoli aspetti delle nostre vite e sta trascinando il globo terracqueo lungo la via della devastazione ambientale. Tuttavia, di fronte a queste urgenze, imbracciare Il capitale senza passare per qualche lettura preparatoria rischia di essere tempo perso, non essendo l’immediata comprensibilità del testo da annoverarsi tra i molti pregi dell’opera maestra di Marx.
Ho scelto di proporre le guide a Il capitale di Harry Cleaver e Michael Heinrich perché, a differenza di altre più note introduzioni [1], si inscrivono in correnti di interpretazione del marxismo – eterodosse e anti-autoritarie – più vicine alla nostra storia. Harry Cleaver, infatti, è uno dei principali esponenti statunitensi del marxismo autonomo, tradizione da lui stesso efficacemente definita in questi termini:
«Ciò che definisce il concetto di “marxismo autonomo” come tradizione a sé stante è il fatto che possiamo identificare, all’interno della più ampia tradizione marxista, una varietà di movimenti, visioni politiche e pensatori che hanno enfatizzato il potere autonomo dei lavoratori – autonomo dal capitale e dalle loro organizzazioni ufficiali (es. sindacati e partiti), nonché il potere di alcuni specifici gruppi di lavoratori di agire autonomamente da altri gruppi (es. le donne rispetto agli uomini). Con “autonomia” intendo la capacità dei lavoratori di definire i propri interessi e di lottare per essi – andando oltre la mera reazione allo sfruttamento e sedicenti “leader”, passando all’offensiva in modi che danno forma alla lotta di classe e determinano il futuro [2]».
L’enfasi sul ruolo delle lotte nella costruzione della società mette così al centro la contingenza della conflittualità politica e strappa il marxismo da quel determinismo economico che ha caratterizzato le sue correnti più ortodosse. È questa l’intuizione di fondo di Reading Capital Politically, la pubblicazione più nota di Harry Cleaver.
Per svariati anni, Cleaver si era occupato della diffusione in ambienti anglofoni di testi e innovazioni teoriche dell’operaismo italiano [3]. Reading Capital Politically rappresenta dunque una sintesi della recezione dell’operaismo italiano da parte dell’autonomismo statunitense [4]. A mio modo di vedere, l’elemento più importante sta nel fatto che, all’epoca, il femminismo autonomo italiano legato agli ambienti di Lotta Femminista [5] trovò orecchie più attente sull’altra sponda dell’oceano, cosa che si riflette molto chiaramente nella lettura de Ilcapitale proposta da Cleaver.
Come spiegato da Silvia Federici, il femminismo autonomo si appropriò del concetto di “fabbrica sociale” di Mario Tronti per analizzare il lavoro riproduttivo domestico come integrato nel circuito del capitale:
«Tronti si riferiva alla crescente riorganizzazione del “territorio” come uno spazio sociale strutturato nell’ottica dei bisogni della produzione di fabbrica e dell’accumulazione capitalista. Ma per noi, è stato immediatamente chiaro che il circuito della produzione capitalista, e la “fabbrica sociale” che esso produceva, iniziava da ed era incentrato su, soprattutto, la cucina, la camera da letto, la casa – nella misura in cui questi erano i centri della produzione della forza-lavoro». [6]
Questa mossa teorica permise di uscire da una concezione ristretta della classe operaia [7] come definita dal lavoro salariato di fabbrica, per estenderla a chiunque dipenda dalla propria forza-lavoro per l’accesso a un reddito, a prescindere dal fatto che questo si manifesti o meno sotto la forma del rapporto salariale. Il femminismo autonomo estese quindi le tesi di Romano Alquati e degli altri operaisti sulla “politicità” delle gerarchie salariali come strumento di de-composizione della classe alla politicità dell’assenza del salario, inserendo nell’analisi il ruolo del sessismo e del razzismo nel rafforzamento di tali stratificazioni [8]. Come riassume Cleaver:
«Il salario divide la classe gerarchicamente tra un settore salariato […] e un settore non salariato […], cosicché quest’ultimo gruppo appare come esterno alla working class per il mero fatto di non ricevere un salario». [9]
L’apertura dell’analisi della composizione di classe al lavoro non salariato e l’importanza data a forme di oppressione come il sessismo e il razzismo sono evidentemente tuttora di grande attualità. Già all’epoca, la rivendicazione di un reddito universale era portata avanti dal marxismo autonomo come mezzo per scardinare le basi materiali di tali divisioni interne alla classe.
Il merito di Harry Cleaver è dunque quello di spiegare punto per punto i concetti del primo capitolo de Il capitale – portando esempi concreti legati al contesto politico degli anni ’70 – alla luce di questo impianto teorico che mette la lotta al centro dell’analisi. Il capitale, il valore, il lavoro astratto, la merce e il denaro sono in tal modo visti come relazioni sociali antagonistiche basate sull’imposizione generalizzata del modo di produzione capitalista, in cui: “La sostanza del valore è il lavoro e il lavoro è il mezzo di controllo sociale” [10].
La Introduction di Michael Heinrich è un lavoro più recente ed è qui consigliata anche per la sua funzionalità formativa; in poco più di duecento pagine, Heinrich offre una spiegazione efficace ed equilibrata di tutti e tre i volumi de Il capitale,basata su uno studio approfondito dei manoscritti in lingua originale di Marx. Nelle sue sezioni conclusive, il volume tratta anche alcuni temi non analizzati in profondità ne Il capitale ma di grande importanza nei successivi dibattiti marxisti, come le questioni dello Stato, dell’imperialismo e del comunismo.
A differenza di Cleaver, Heinrich si colloca nella corrente di pensiero chiamata Neue Marx-Lektüre (altrimenti nota come Value-Form Theory) e non nell’autonomismo [11]. La Neue Marx-Lektüre è una tradizione principalmente accademica che discende dalla Scuola di Francoforte tramite autori quali Hans-Georg Backhaus e Helmut Reichelt. Tale tendenza sottolinea il ruolo del valore come forma di dominazione impersonale basata sulla mercificazione delle relazioni sociali.
In questa concezione, il valore di una determinata merce non dipende dalla quantità di lavoro concreto dispensato per produrla, ma dalla quantità di lavoro astratto che essa rappresenta. A sua volta, il lavoro astratto emerge nel momento in cui tale merce viene messa in relazione con la totalità delle merci tramite lo scambio di mercato via denaro:
«Solo con l’equazione delle merci in quanto valori avviene realmente l’astrazione dalla particolarità del lavoro che le produce, e solo così esso conta come lavoro “astratto” produttore di valore. […] Il lavoro astratto è una relazione di validazione sociale(Geltungsverhältnis) costituita tramite lo scambio [di mercato]». [12]
Il valore è quindi una forma sociale specifica al modo di produzione capitalista, nel quale vige la dipendenza dai mercati per l’accesso ai mezzi di sussistenza. Il mercato agisce come meccanismo di disciplina su capitalisti e lavoratori, determinando quanto del lavoro concreto privatamente erogato da questi ultimi conti socialmente come lavoro astratto produttore di valore. Da tale concezione “sociale” del valore deriva anche una delle principali fonti di controversia teorica tra la Neue Marx-Lektüre e il marxismo autonomo nella sua variante post-operaista, giacché la prima difende su queste basi l’attualità della legge del valore, negata invece dai secondi [13].
Un’altra peculiarità della lettura di Heinrich, e della Neue Marx-Lektüre in generale, è il ruolo di spicco assegnato al feticismo nell’analisi della società capitalista:
«Marx ha mostrato come il modo di produzione capitalista generi un’immagine di sé medesimo in cui le relazioni sociali sono reificate e le relazioni capitaliste di produzione derivano apparentemente dalle condizioni della produzione in generale, cosicché soltanto cambiamenti all’interno delle relazioni capitaliste sembrano possibili. […] Come e se questo modo di produzione raggiungerà la sua fine non può essere determinato in anticipo. Non ci sono certezze qui, solo una lotta la cui conclusione è incerta». [14]
Ora che ho schematicamente esposto le basi degli approcci dei due autori, vorrei soffermarmi altrettanto schematicamente su come tali assunzioni li portino a interpretare diversamente alcune centrali categorie marxiane. Il capitale, ci ricorda Heinrich, è valore auto-valorizzantesi, ovvero valore nel processo di generare plusvalore e di conseguenza profitto. Il valore a sua volta è il prodotto del lavoro astratto. È proprio nel concetto di lavoro astratto che possiamo identificare la divergenza di fondo tra Cleaver e Heinrich. Per Heinrich il lavoro astratto è, come abbiamo visto, un’astrazione dal lavoro concreto operata dal mercato che in tal modo lo disciplina vincolandolo agli imperativi della competitività. Per Cleaver, il lavoro astratto – ciò che accomuna ogni tipo di lavoro nella società capitalista a prescindere dalle sue qualità concrete – è la sua essenza di veicolo di controllo sociale necessario alla riproduzione del capitalismo:
«Più lavoro (misurato in termini di tempo o di sforzo) ci viene imposto per produrre una certa unità e più le nostre vite vengono subordinate al controllo capitalista nella produzione di tale unità, e di conseguenza aumenta il valore di questa unità per il capitale. […] La sostanza del valore-lavoro (il lavoro astratto) è precisamente la sua stessa utilità politica, poiché esso costituisce il più fondamentale veicolo capitalista di controllo e dominio». [15]
Le due posizioni non sono necessariamente inconciliabili. Se Cleaver sottolinea come l’imposizione del lavoro sia politicamente necessaria alla riproduzione del capitalismo, Heinrich enfatizza come questo avvenga tramite la disciplina di mercato. Resta però il fatto che Cleaver mantiene una centralità dell’antagonismo sociale che in Heinrich tende a venir messa in secondo piano dalla totalità impersonale e auto-riproducentesi della legge del valore [16]. Tale divergenza emerge anche nelle teorie della crisi abbracciate dai due autori. Per Heinrich, le crisi capitaliste sono dovute a una tendenza immanente del capitalismo alla sovra-produzione di merci e alla sovra-accumulazione di capitale, e quindi “anche se la lotta di classe si fermasse del tutto, le crisi avverrebbero comunque” [17]. A mio parere, vale la pena di chiedersi quale sia il senso di quest’ultimo esperimento mentale, dato che la lotta di classe (esplicita o implicita) è anch’essa immanente al capitale in quanto esso è una relazione sociale basata sull’espropriazione dai mezzi di produzione. Ma, nel caso di un impossibile capitalismo senza lotta di classe, è immaginabile che – data l’assenza di resistenze e contrattacchi alle esigenze del capitale – le tendenze alla sovra-accumulazione del capitale possano anche risolversi senza crisi, difendendo il tasso di profitto devastando l’ambiente, riducendo i salari e aumentando la durata e l’intensità del lavoro fino alla distruzione dell’umanità. Perciò è ancora da prendersi sul serio la posizione di Cleaver e dell’autonomismo, secondo cui le crisi sono leggibili come reazioni alla lotta di classe. Per proporre una bella formulazione di John Holloway:
«La crisi è la semplice manifestazione del fatto che la vite [del capitale] non si sta stringendo su di noi abbastanza velocemente. Sta incontrando resistenza da qualche parte: forse resistenza nelle strade, forse resistenza organizzata, ma non necessariamente – può anche trattarsi della resistenza di genitori che vogliono giocare con i propri bimbi [invece di lavorare], di amanti che vogliono passare un’altra ora a letto, di studenti che ritengono di poter perdere del tempo a criticare, di umani che sognano ancora di essere umani. Siamo noi la crisi del capitale, perché non ci chiniamo abbastanza». [18]
Ecco dunque che la lotta è al contempo l’elemento chiave sia per la comprensione che per il superamento del capitale. I due volumi proposti, proprio a causa delle loro differenze, possono essere letti in modo complementare. Heinrich fornisce un riassunto esaustivo, originale e intellettualmente raffinato, ma quasi del tutto concentrato sul testo de Il capitale e piuttosto distante dalle lotte concrete a cui la teoria deve servire. Cleaver invece, come già esplicitato dal suo titolo, offre una lettura immediatamente politica del primo capitolo dell’opera maestra di Marx, lettura che incorpora le elaborazioni teoriche dell’operaismo italiano e soprattutto del femminismo autonomo, mettendo in relazione l’apparato concettuale marxiano con dinamiche di lotta contemporanee alla scrittura della guida. Se anche noi oggi vogliamo cercare in Marx un pensiero utile alla diversità dei nostri bisogni – tenendoci alla larga da competizioni di fedeltà a ciò che il bicentenario autore avrebbe “davvero” voluto dire – questi due libri costituiscono a mio parere un prezioso aiuto.
[1] Penso in particolare a Lire le Capital di Louis Althusser e collaboratori – legato al Partito comunista francese – e A Companion to Marx’s Capital, Vols 1 & 2 di David Harvey.
[2] https://la.utexas.edu/users/hcleaver/cleaverinterview.html, traduzione di LFe. In questa concezione, l’operaismo e il post-operaismo possono essere considerati come facenti parte di un più ampio marxismo autonomo.
[3] La sua traduzione più importante è probabilmente Marx Beyond Marx (1991), la versione inglese delle lezioni di Antonio Negri sui Grundrisse.
[4] Quest’ultimo discende dalla ex-trotzkista Johnson-Forest Tendency, i cui esponenti più noti sono CLR James e Raya Dunayevskaya.
[5] Il femminismo autonomo italiano aveva infatti già costruito importanti reti di scambio internazionale, basti pensare al testo fondazionale Potere femminile e sovversione sociale (1972) – frutto di una collaborazione tra Mariarosa Dalla Costa e Selma James – e alla campagna Wages for Housework, della quale Silvia Federici fu una delle principali animatrici negli Stati Uniti. Per volumi più recenti che si rifanno in parte a questa tradizione, si vedano The Problem with Work (2011) di Kathi Weeks e Social Reproduction Theory (2017) a cura di Tithi Bhattacharya.
[6] Revolution at Point Zero (2012), pp. 7-8, traduzione di LFe.
[7] Uno dei problemi semantici dell’italiano sta nel fatto che è difficile slegare l’espressione “classe operaia” da un richiamo a un’inattuale centralità della fabbrica, mentre l’inglese “working class” indica più semplicemente ed efficacemente la necessità di vendere la propria forza-lavoro per vivere.
[8] Si veda in particolare la collezione di scritti di Selma James Sex, Race and Class (2012).
[9] Reading Capital Politically (1979), p. 72, traduzione di LFe.
[10] Ibid.,p. 100, traduzione di LFe.
[11] L’Open Marxism britannico costituisce una sorta di punto d’incontro tra la Neue Marx-Lektüre e l’autonomismo, si vedano per esempio i lavori di Werner Bonefeld, Ana Dinerstein e John Holloway.
[12] An Introduction to the Three Volumes of Karl Marx’s Capital (2012), p. 50, traduzione di LFe.
[13] Una comparazione tra il post-operaismo e la Neue Marx-Lektüre, che prende le parti di quest’ultima, è stata recentemente pubblicata da Harry F. Pitts sotto il titolo Critiquing Capitalism Today (2017). La prima formulazione compiuta della tesi secondo cui il lavoro contemporaneo è non misurabile, e quindi non più soggetto alla legge del valore, risale a Crisi dello stato piano (1971) di Antonio Negri.
[14] An Introduction to the Three Volumes of Karl Marx’s Capital (2012), p. 198, traduzione di LFe.
[15] Rupturing the Dialectic: The Struggle against Work, Money, and Financialization(2017), p. 91 e p. 98, traduzione di LFe. Fedele alla linea del rifiuto del lavoro, Cleaver ha pubblicato solo due libri nella sua lunga carriera, uno nel 1979 (qui recensito) e uno nel 2017 (qui citato).
[16] La principale critica di Werner Bonefeld – pur vicino alla Neue Marx-Lektüre – a Heinrich è proprio quella di non teorizzare come l’antagonismo sociale sia insito all’espropriazione dai mezzi di produzione necessaria all’ “entrata in vigore” della legge del valore; si veda Critical Theory and the Critique of Political Economy (2014).
[17] An Introduction to the Three Volumes of Karl Marx’s Capital (2012), p. 195, traduzione di LFe.

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