venerdì 22 marzo 2019

23 marzo a Roma: per il clima e contro le grandi opere

 
dinamopress

Continua la primavera di mobilitazioni nel nostro paese, sabato in piazza per fermare chi devasta i territori determinando i cambiamenti climatici, in uno storico appuntamento ecologista. Appuntamento alle 14 in piazza della Repubblica
Il 23 marzo è arrivato. La manifestazione di sabato contro le grandi opere e per il clima, lanciata con largo anticipo da una coalizione di movimenti a novembre 2018, giunge in un momento particolarmente significativo. Per la prima volta da quando il problema dei cambiamenti climatici è riconosciuto dalla scienza (cioè dagli anni ‘80 del secolo scorso) la tematica è diventata oggetto di una consapevolezza comune e condivisa nel nostro paese, è tema di cui discutere anche in coda al supermercato.

10 anni fa, quando in tante e tanti partimmo per Copenhagen, per quella che rimase la più grande mobilitazione europea per il clima, non era per nulla questo lo scenario. Possiamo ipotizzare che due fattori abbiano permesso questo passaggio.
Il primo è che i cambiamenti climatici sono un dato di fatto ormai inequivocabile nella loro drammaticità anche in Italia. I milioni di alberi strappati dalla terra nel bellunese per la furia del vento sono rimasti negli occhi di molti, ma in molte zone del paese i processi di violento cambiamento climatico sono altrettanto evidenti: la desertificazione in Basilicata, l’estinzione dei ghiacciai alpini come quello di Forni, l’erosione delle spiagge liguri sono tutti eventi repentini, gravi e irreversibili prodotto dei cambiamenti climatici. Chiamarli maltempo è ormai ridicolo.
Il secondo fattore è che per la prima volta un movimento globale chiede ai governi provvedimenti urgenti contro il cambiamento del clima, ed è in crescita in tutti i continenti. Greta Thunberg è stata la leva che ha fatto saltare il tappo di una situazione progressivamente grave e non più tollerabile. L’ondata globale di protesta si è fatta sentire anche nel nostro paese e le straordinarie manifestazioni esplose il 15 marzo in centinaia di città hanno dimostrato che c’è una componente, per lo più giovanile, che è disposta a impegnarsi in modo determinato per il clima ma pure per avere un futuro, visto che ha ben chiaro quanto ha dichiarato un comitato di scienziati dell’ONU (IPCC): o si inverte la rotta entro i prossimi 12 anni, o il futuro del pianeta è seriamente in pericolo. In pochi mesi quella che era una consapevolezza di pochi pare si sia tramutata in una preoccupazione di molti e molte.
In questo contesto, la scelta, fatta 6 mesi fa, di centrare la manifestazione di sabato sull’intreccio tra grandi opere, inutili e imposte, e i cambiamenti climatici è stata senza dubbio intelligente e quasi profetica di quello che è il clima politico in questa primavera. Tra le tante ragioni per cui l’opposizione alle grandi opere si può (e si deve) intrecciare alla lotta per difendere il clima ce ne sono tre da evidenziare per la loro rilevanza.
La prima è che unire le due tematiche permette di evidenziare che c’è un responsabile comune: il capitalismo neoliberista ed estrattivista che mette a valore i territori e la natura per aumentare i profitti e gli interessi di pochi. Questo stesso capitalismo è quello che ordina ai governi di continuare a promuovere le fonti fossili, di sostenere il trasporto privato su gomma, di mettere a valore le risorse idriche, marine e forestali anziché preservarle. Questo capitalismo è incompatibile con la sopravvivenza sul pianeta, come ha detto, tra gli altri, Naomi Klein. Pertanto, oggi possiamo ribadire apertamente che se perdiamo un patrimonio di foreste incalcolabile a Belluno non è colpa del maltempo né è una disgrazia fatale che ci deve far sentire impotenti. E’ invece la conseguenza precisa dell’operato di una serie di governi schiavi delle lobby, che hanno da sempre sostenuto solo la produzione di energia da fonti fossili e che ancora oggi, per coltivare gli interessi di Eni, vogliono trasformare l’Italia nell’hub del gas europeo con il TAP e con altre opere devastanti.

La seconda ragione è che la lotta contro il cambiamento climatico permette di proiettare l’opposizione alle grandi opere in senso sistemico anziché localistico.  Movimenti longevi e capaci come la lotta No Tav o la stessa lotta No Tap hanno sempre ribadito quanto la loro non fosse una battaglia nimby, ma evidenziare in modo così netto il collante comune della crisi ecologica in atto permette non solo di superare i limiti di possibili obiettivi localistici, ma anche di saper leggere la propria lotta come parte di un quadro più grande e questo fattore può favorire il lavoro in coalizione verso obiettivi comuni.
Sottoliniamo questo fattore perché mettere in coalizione la pluralità delle lotte territoriali è stato sempre complesso e spesso fallimentare nella storia recente dei movimenti del nostro paese. Solo negli ultimi anni ricordiamo il 2007/2009 con il Patto di mutuo soccorso e poi l’incontro sul monte Amiata tra movimenti nel 2013. Tali coalizioni non sono riuscite a decollare per svariate ragioni, tra queste l’incapacità di fare la “somma delle parti”. Ora c’è almeno la speranza di un campo comune di lotta dal quale le singole battaglie possano trarre nutrimento e ispirazione comune.
La terza ragione della rilevanza di un corteo per il clima e contro le grandi opere è che la connessione stretta tra le due lotte permette di evitare soluzioni progressiste e buoniste rispetto al problema climatico. O si cambia modello di sviluppo, fondato sull’estrattivismo, o la vita sul pianeta avrà fine. Non ci sono mediazioni possibili, capitalismi verdi, green economy o interventi “leggeri”. L’intervento da fare deve essere drastico, incondizionato e immediato, deve permettere di cambiare il sistema come ha richiesto in un discorso potente Greta Thunberg alla COP di Katowice.
Venerdì 15 marzo è stata una giornata che ha stupito molti. Si temeva la strumentalizzazione da parte di un PD che brancola nel buio e che, senza mettere in discussione nulla della sua autocombustione interna degli ultimi 15 anni, cerca di appigliarsi a qualche bandiera per recuperare una qualche dignità. Questa strumentalizzazione c’è stata, pesante, anche se forse poteva pure essere peggiore, merito dei tanti e tante che si sono mobilitate chiedendo che non vi fossero simboli di partito in nessuna piazza.
Grossolana, volgare e sguaiata è stata invece la reazione della destra, che unendo sessismo, abilismo e disprezzo verso una ragazza perché non neurotipica come Greta ha cercato di screditare in modo paternalistico una mobilitazione impressionante. Entrambe le reazioni potrebbero però essere la conseguenza di un “essere stati colti di sorpresa” dalle dimensioni e dall’impatto della giornata e pertanto reagire in modo poco programmato e congruo. Può davvero un partito come il PD rantolante che con enorme fatica (e soldi) ha “affollato” piazza del Popolo quattro mesi fa, proiettarsi come punto di riferimento centinaia per migliaia di ragazzi scesi autonomamente in piazza in più di 130 piazze? È quasi ridicolo se ci si pensa.
Le previsioni fanno ben sperare per la piazza di sabato. Più di cento bus sono in arrivo e c’è la speranza che l’onda lunga di venerdì 15 possa avere un impatto sul corteo. È  probabile che sarà il corteo ecologista più grande dai tempi della lotta al nucleare, se non si tengono in considerazione i grandi cortei per l’acqua pubblica del 2009-2012 dove ecologia e beni comuni erano intrecciati. La sfida, come sempre, sarà “andare oltre la data” e consolidare una coalizione che possa far crescere la mobilitazione territoriale e nazionale sul lungo periodo.
Ma c’è forse un’ulteriore sfida da compiere. Alla faccia di chi ripete che i movimenti sono in crisi, in questo mese abbiamo avuto finora un 8 marzo memorabile e storico in termini di manifestazioni di massa, il 15 marzo che ha stupito tutti e tutte, ora il 23 marzo e dietro l’angolo ci aspetta la mobilitazione del 30 marzo contro l’orrendo congresso mondiale delle famiglia patriarcale.
Se anche queste due mobilitazioni fossero ampie, determinate e radicali come sono state quelle già avvenute (e possiamo ben sperare che sarà così) dovremo ricordare a lungo questo mese per la straordinaria capacità di mobilitazione sul fronte femminista ed ecologista.
Forse la sfida più grande allora è proprio questa, riscoprire il valore del termine ecofemminismo, perché le due lotte hanno molteplici matrici comuni, nel carattere intrinseco, negli aspetti teorici e nella propria storia. Sono due lotte contro il dominio patriarcale violento e androcentrico sulla natura, che è in stretta analogia con il dominio sessista sulla donna.
Alcuni mesi fa sul sito Giap è apparso uno straordinario articolo in due parti,  Si Trav, come la militanza #Notav mi ha dato il coraggio di diventare me stessa. È un testo politico eccezionale, che restituisce in forma emozionale, viva e spontanea il senso più profondo della locuzione “intersezionalità ecofemminista delle lotte”. Leggerlo può essere fonte di ispirazione e di buon auspicio per quanto sta accadendo in questo marzo.
La sfida più grande, allora, sarà a partire dal 1 di aprile creare sinergie, fronti comuni e campi di battaglia da costruire assieme. Abbiamo davanti uno governo retrogrado capitalista violento e patriarcale come pochi. Tuttavia abbiamo dalla nostra una “primavera storica” che segna il passo ed eccede in capacità, numeri, radicalità. La sfida e aperta.  #siamoancoraintempo.

Illustrazione di copertina di Luca Bowles

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