contropiano
Due
notizie in una botta sola. Ma entrambe segnalano crisi nera per
l’economia, sia italiana che europea. Ma se così è, la causa va cercata
nel modello continentale, più che nelle storture di questo paese (che
aggravano una situazione, naturalmente, ma non ne sono all’origine).
Proviamo a sintetizzare, nei limiti del possibile.
Il
Centro Studi di Confindustria azzera le previsioni crescita per l’anno
in corso, portandole da un già misero 0,9% al nulla assoluto. La lista
delle concause è come sempre lunga e orientata secondo gli schemini
asfittici del solito neoliberismo accecato: si va da “una manovra di
bilancio poco orientata alla crescita” all’”aumento del premio di
rischio che gli investitori chiedono” sui titoli pubblici italiani, dal
“progressivo crollo della fiducia delle imprese” rilevato “da marzo,
dalle elezioni in poi” fino al calo degli investimenti privati (-2,5%,
escluse le costruzioni) dopo 4 anni di modesta risalita.
Un
economista normale – ossia uno che guarda all’economia reale invece che
alla finanza speculativa – partirebbe da quest’ultimo punto: se si investe di meno, come pretendi che si possa avere una crescita?
Oltretutto
è universalmente noto che gli investimenti pubblici sono o vietati
dalle norme dell’Unione Europea, oppure drasticamente tagliati per
ridurre il deficit o il debito dello Stato. Mentre, infine, i capitali
che lasciano l’Italia (capitali “itagliani”, sia chiaro) sono molto più
sostanziosi di quelli esteri in entrata.
Ma
al Csc di Confindustria non può scappare neppure uno sbaglio una
critica verso il committente (le imprese italiane) o il modello teorico
neoliberista.
Dunque
le “indicazioni” che ne vengono sono sempre le solite. Ovvero risanare i
conti pubblici (tagliando ancora, quindi aggravando le tendenze
recessive) e non sforare il rapporto deficit/Pil.
Il
Csc sottolinea che ci troviamo al “bivio” tra “rincaro Iva” o “far
salire il deficit pubblico al 3,5%”. Per annullare il primo e fare la
correzione richiesta sui conti “servirebbero 32 miliardi di euro senza
risorse per la crescita”. Così appare “inevitabile un aumento delle
tasse”.
“L’Italia
– dice ancora il capo economista di Confindustria, Andrea Montanino –
deve evitare di andare oltre il 3% nel rapporto deficit-Pil: sarebbe un
segnale molto negativo per i mercati. Il fatto che lo spread non si è
richiuso significa che continuiamo ad essere un paese sotto
osservazione. Verremmo puniti dai mercati”.
Messa
così non c’è speranza. Anche perché si invita alla “prudenza” nel
firmare contratti con la Cina (tra i pochissimi investitori globali, in
questa fase): “il 60% degli scambi europei con la Cina avviene via
mare”, ma “le tensioni strategiche sino-americane, anche in caso di
accordo bilaterale, si riverseranno in territorio europeo”. Per
concluderne che “Una maggiore cooperazione con la Cina è necessaria ma
senza rotture con il principale alleato atlantico e soprattutto
costruendo una posizione negoziale forte”.
Uno
stallo mentale e progettuale che inchioda l’economia del paese in una
situazione critica e dipendente da scelte altrui. Che sono parimenti
fallimentari.
La
conferma arriva inaspettatamente da Mario Draghi, ancora per qualche
mese al vertice della Bce. “Lo scorso anno ha fatto segnare una perdita
di velocità delle dinamiche di crescita dell’area euro, dinamica che si è
estesa al 2019. Ciò è stato dovuto principalmente alla pervasiva incertezza nell’economia globale che si è riversata sull’andamento della domanda esterna.
Anche se la domanda interna ha retto e i fattori alla base
dell’espansione non sono stati compromessi permangono rischi al ribasso
per l’economia».
In
pratica un confessione: il modello economico europeo, incentrato sulle
esportazioni (come da diktat tedesco), è impantanato perché totalmente
dipendente da dinamiche che non può controllare. La sostanziale rinuncia
pluriventennale al consolidamento del mercato interno – fatto di spesa
per consumi (e quindi salari adeguati e crescenti), welfare (salario
differito o indiretto), investimenti pubblici per qualcosa di più
“redistributivo” rispetto alle “grandi opere”, ecc – ha eliminato
l’unico fattore che può compensare l’inevitabile caduta della domanda
estera.
Ma
di questo modello Draghi è stato uno dei principali sostenitori, se
riandiamo a leggere la famosa “lettera” inviata al governo italiano
dell’agosto del 2011 e che si tradusse, di lì a poco, nella svolta
durissima del governo Monti-Fornero. Eppure da Francoforte non esce
neppure un accenno di autocritica…
Anzi,
a ben guardare si vede la disperazione di un presidente di banca
centrale che deve smentirsi a poche settimane dalla decisione di metter
fine ai quantitative easing, presa nella convinzione che si
stessero ricreando le condizioni di una crescita economica “normale”.
Ossia non drogata da una politica di tassi di interesse a zero e da
“iniezioni di liquidità” permanenti.
«Un
sostanziale accomodamento monetario è ancora necessario per assicurare
il percorso di convergenza dell’inflazione verso l’obiettivo di lungo
termine e questo è riflesso dalle nostre ultime decisioni di
politica monetaria». Neanche una parola sul fatto che alcuni anni di
“accomodamento monetario” non abbiano modificato in nulla la situazione;
o meglio, hanno evitato il crollo finanziario, ma non hanno rimesso in
moto l’economia reale.
In altri termini: che questa strategia non funziona affatto. Eppure viene ripresa…
Siamo, dal punto di vista della credibilità, alla caduta degli dei.
Sembrano lontani secoli i tempi in cui “i mercati” reagivano
immediatamente ad ogni parola o battito di ciglia dei governatori della
banche centrali più importanti. Oggi parlano ancora, e a lungo, ma
nessun operatore economico li prende più a riferimento per le scelte da
fare.
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mercoledì 27 marzo 2019
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